L’autore stesso confessa che in partenza pensava ad un libro sulle trecento pagine, ma che poi è stato preso dalla foga della scrittura e dai personaggi e ne è uscito questo “malloppone”, che nonostante sia uno dei libri più lunghi mai pubblicati in un singolo volume – per lo meno in lingua inglese – è un romanzo molto amato dal pubblico. Per giustificarne la lunghezza Seth ci parla di “Anna Karenina” di Tolstoj, altro libro piuttosto lungo – spesso offertoci in due volumi – che egli sicuramente ammira: in quel magnifico libro, infatti, si impara persino come fare la marmellata di fragole. Sono i dettagli che contano, secondo Seth. Non per niente è stato descritto come uno scrittore di “qualità ottocentesca”, pensando proprio a giganti come Tolstoj o Dickens, che hanno fatto dell’attenzione ai dettagli la loro fortuna (non che basti quella, sia chiaro!).
E’ un approccio alla letteratura che va a genio a Seth, che confessa di non aver fatto il percorso usuale dello scrittore che studia tutta la storia della letteratura prima di iniziare a scrivere. Egli è infatti un economista per formazione. Sarà pure un economista – a cui importano, per sua stessa ammissione, le cose della vita reale come l’amore, l’odio o l’ambizione – ma nelle sue risposte e nelle sue lettura c’è un’arguzia non indifferente. Seth, che ha già scritto un romanzo parzialmente ambientato a Venezia (“Una Musica Costante”), è stato invitato dalla Fondazione Musei Civici ad essere quello che in Inghilterra verrebbe chiamato “writer in residence”, cioè a fermarsi per qualche settimana o qualche mese nella città lagunare per scrivere sul patrimonio museale cittadino, che come si sa è molto ricco. Ci legge una poesia monosillabica dedicata a Venezia, ispirata alla poesia cinese (lingua in cui un monosillabo, a seconda del tono, può cambiare radicalmente significato). Da notare che in inglese, a differenza che in italiano, una poesia composta interamente da monosillabi è possibilissima da comporre, tanto più che la frase della letteratura inglese più famosa al mondo è composta da monosillabi: “to be or not to be”. Oppure pensate alla famosa elegia di Chidiock Tichborne: “My prime of youth is but a frost of cares, / My feast of joy is but a dish of paine: / my crop of corne is but a field of tares, / and al my good is but vaine hope of gaine. […]”.
Seth dimostra di conoscere bene anche la letteratura italiana, dichiarando di amare Leopardi e di comprendere la sua poesia e di amare Venezia, di conoscerla anche piuttosto bene, notando come agli indiani riesce bene il dialetto veneziano perché ha la stessa “erre arrotolata” (e ce ne fa un divertentissimo esempio). Ecco che quindi l’incontro non è caduto nello stereotipo, nella banalità di considerare uno scrittore indiano solo per la sua “indianità”, per il suo essere esotico in altre parole. Vikram Seth è apparso distantissimo da ogni “esotismo”, e da ogni eccessivo “intellettualismo”, rimanendo comunque sempre acuto e divertente nelle sue osservazioni. Da ultimo ci legge alcune poesie ispirate agli elementi, che per lui sono sette: terra, acqua, fuoco, aria, spazio, legno e metallo (questi ultimi vengono dalla simbologia cinese). Si rivela quindi anche un poeta sopraffino, recitando le poesie con una foga e una passione che causano uno scroscio di applausi.