Wednesday, June 29, 2011

“Domani nella Battaglia Pensa a Me” di Javier Marías

Alla fine del libro – per lo meno dell’edizione spagnola che ho comprato per comprovare che sono ancora capace di leggere in questa lingua – c’è un breve epilogo che non è altro che la trascrittura del discorso tenuto da Marías in occasione della consegna del premio Rómulo Gallegos. Qui ci viene rivelata una cosa molto importante riguardo al significato ultimo di questo romanzo. Marías dice: “Quizá estamos hechos en igual medida de lo que fue y de lo que pudo ser” (“Forse siamo fatti in egual misura di quello che è stato e di quello che sarebbe potuto essere”). I personaggi di “Domani nella Battaglia Pensa a Me”, infatti, si trovano spesso in situazioni precarie, frequentano luoghi a loro estranei dove sono quindi degli intrusi, e devono ricorrere alla menzogna per non farsi scoprire. A volte prendono momentaneamente il posto di un’altra persona e, soprattutto, alla fine dei conti subiranno le conseguenze dei loro sotterfugi. 

Il protagonista Victor Francés è un ghost writer (un “negro de la escritura”, come si dice in modo alquanto buffo in spagnolo) che vive della fama degli altri, scrivendo copioni per la televisione e discorsi per vari personaggi pubblici. Nel bel mezzo di un appuntamento galante con una donna sposata, l’uomo si trova in una situazione paradossale che non può che turbarlo profondamente: la donna si sente male e nel giro di pochissimo tempo, senza quasi rendersene conto, muore lasciando un bambino piccolo a dormire in una stanza piena di modellini di aeroplani e l’ospite, oramai divenuto un intruso in una casa sconosciuta, ad interrogarsi sul da farsi. Che cosa sarebbe successo se Victor Francés non si fosse trovato a cena da quella donna? Cosa sarebbe successo al bambino? E se invece Marta, che ora giace morta sul suo letto mezza svestita in modo imbarazzante, si fosse ricordata per tempo che il marito era all’estero per lavoro e avesse invitato a cena il suo “solito” amante, di cui Victor scopre l’esistenza grazie ai messaggi della segreteria telefonica che riascolta numerose volte? Sono queste alcune delle domande che si fa il protagonista-narratore, mentre continua a mentire per intrufolarsi nella vita dei familiari della donna morta per curiosità, come d’altronde facciamo noi lettori quando a forza ci intromettiamo nella vita dei personaggi dei romanzi che leggiamo, scovandone i segreti più inconfessabili e le emozioni più intime, senza vergognarcene e provando persino piacere nella continua finzione.

Javier Marías si ferma a descrivere le singole scene nel dettaglio, rallentando costantemente la narrazione, di modo che siamo costretti – almeno, io sono stata costretta – a leggere lentamente, assaporando la qualità delle riflessioni, spesso anche esistenzialiste, dell’autore. Per questo non è uno scrittore per tutti: la noia a volte è in agguato, nonostante l’indubbio valore letterario. Lo sforzo di sopportare un ritmo talmente lento da risultare addirittura snervante, credo venga ripagato dalla profondità e dalla lucidità di acune considerazioni sulla morte e sulla precarietà dell’esistenza. Chissà quanto Marías è consapevole della propria verbosità e quanto abbia lottato con editori (e lettori forse?) per non modificare questo stile, oserei dire, quasi proustiano. 

Diverse citazioni letterarie e cinematografiche arricchiscono il testo, da quella memorabile di Shakespeare tratta dal Riccardo III che dà il titolo al romanzo a quella di “Campanadas a Medianoche” di Orson Welles, che non sono, come accade troppo spesso, gettate nel testo per autocompiacimento, ma contribuiscono ad approfondire le questioni trattate nel testo. Sono dei mantra che ricorrono, facendoci riflettere su come le emozioni umane siano ricorrenti, come una frase che Shakespeare mette in bocca al fantasma di una regina assetata di vendetta possa essere valida anche nella Madrid contemporanea. Il libro tra l’altro sfrutta i benefici di un’aura da romanzo giallo: a chi appartiene, per esempio, quella voce che nella segreteria piange in modo inconsolabile e la cui voce suona irriconoscibile per il pianto? 

"Domani nella Battaglia Pensa a Me" di Javier Marías
edito da Einaudi, 1998 (12 €)


Sull’autore: Javier Marías è uno tra i massimi scrittori spagnoli contemporanei. E’ nato nel 1951 a Madrid, figlio di un filosofo che è stato un oppositore di Franco. E’ autore di numerosi romanzi, tra i quali “Tutte le Anime” (1989, tradotto in Italia solo nel 1999), “Un Cuore Così Bianco” (1992) e “Domani nella Battaglia Pensa a Me” (1994) formano la cosiddetta “Trilogia Sentimentale”. Nel 2002 ha pubblicato il primo capitolo di una seconda, ambiziosa trilogia chiamata “Il Tuo Volto Domani”, che comprende i romanzi “Febbre e Lancia”, “Ballo e Sogno” e “Veleno e Ombra e Addio”. Javier Marías è anche traduttore, in particolare di romanzi inglesi in spagnolo.

Tuesday, June 21, 2011

“The Country Without a Post Office” by Agha Shahid Ali

In the case of Agha Shahid Ali (1949 – 2001), the entry about the author’s country that I usually have at the beginning of every review makes me feel ill at ease, so I decided to leave that out. We are speaking of a Kashmiri-American poet, born in New Delhi in a newly independent India and forced into exile in the United States  because of the violent reality of Kashmir, which was annexed to a mostly Hindu nation, India, even if it was a predominantly Muslim region also claimed by Pakistan. To express this uneasiness, the poet uses among other things the metaphor of stamps (“I’ve brought cash, a currency of paisleys / to buy the new stamps, rare already, blank, / no nation named on them”).

The country without a post office in the title is obviously Kashmir, written in endless ways (“Kashmir, Kaschmir, Cashmere, Qashmir, Cashmir…”) to stress the elusiveness of the places of memory, which in the meantime change but in our minds are  still as we left them, even though faded and distorted by the present time we live in. In Kashmir, incidentally, several layers created by migrations, conquests and conversions have set up a multiplicity of meanings, mirrored in the name of the region and in its different transliterations. These layers, superimposed but also cause of frictions and fractures, perfectly describe the poems of Agha Shahid Ali. Outlining it, Meena Alexander speaks of a “geography of dissonance, place tearing open to reveal another place, an elsewhere the poet must claim in order to reach where he wants to go” (Poetics of Dislocation, p.9). It is thus possible that the phone rings in America and, when the conversation has finished, you hang up the phone in Kashmir, as it happens in the poem that gives its name to the entire collection.

 Those who in front of a poem always feel the urgency to understand should take note that Agha Shahid Ali’s poetry is built through associations rather than through a concrete narrative plot. Yet the poet often speaks of real events, like when in 1990 the post office of Srinagar closed down for several months because of violent insurrections against the government and the mail piled up in the house of a friend of the poet’s father.

Agha Shahid Ali’s poetry is packed with nostalgia and awareness of the fact that once you have left the native country and one’s past are irretrievable. The dreamlike quality of his poetry are triggered by this desire to grasp, to own once again the places of childhood and one’s roots. Yet it is a desire accomplished only in brief moments when several places superimpose, or in dreams, which obstinately and unreasonably bring us back to the places we have lived in, distorting them and adapting them to the concrete reality of the present. Exile, for the poet, is like the Arab language, used in prayer by all Muslims, but not always possessed or understood. In the couplets of a ghazal, Agha Shahid Ali expresses these feelings:

The only language of loss left in the world is Arabic –
These words were said to me in a language not Arabic.
[…]
From exile Mahmoud Darwish writes to the world:
You’ll all pass between the fleeting words of Arabic.

At an exhibition of miniatures, such delicate calligraphy:
Kashmiri paisleys tied into the golden hair of Arabic!
[…]
When Lorca died, they left the balconies open and saw:
his qasidas braided on the horizon, into knots of Arabic.
(“Ghazal”)

Agha Shahid Ali has introduced Americans to the poetic form of the ghazal, through his works and his translation of the great Urdu poet Faiz Ahmed Faiz. Some American poets, after him, have experimented with this poetic form in English, as García Lorca had done before with Spanish. Ali said that every couplet, repeating in its second verse the rhyme in the first couplet, is like a stone from a necklace, which should continue to shine in that vivid isolation.

This is the kind of poetry that has apt quotations, sometimes from poets also interested in the problems of nationalism and self-rule, for instance Yeats “Now and in time to be / Wherever green is worn, … / A terrible beauty is born”), or from cherished poets, like Emily Dickinson who lived in Amherst like him. Of her he reports a few lines at the beginning of a poem (“If I could bribe them by a Rose /  I'd bring them every flower that grows./ From Amherest To Cashmire”). In spite of this he has an extremely original style: he uses free verse as well as some specific poetic forms (villanelle or ghazal, for instance), thus mixing several poetic traditions. He speaks of utterly personal feelings and experiences of loss and nostalgia, but he also reflects on the ultimate meaning of history and of human conflicts.

About the author: Agha Shahid Ali was born in New Delhi in 1949. He was educated there and in Kashmir, before emigrating to America. There he was the recipient of several grants. He is the author of, among other things, "A Nostalgist's Map of America" (1991), "Call me Ishmael Tonight: A book of ghazals" (2003) and "The Country Without A Post Office" (1998). He also edited a book of ghazals in English, "Ravishing Disunities: Real Ghazals in English" (2000). He died of brain cancer in 2001.

“The Country Without a Post Office” di Agha Shahid Ali

Nel caso di Agha Shahid Ali (1949 – 2001), la voce sulla nazionalità dell’autore che di solito metto all’inizio di ogni recensione mi mette a disagio, così ho deciso di toglierla del tutto. Si tratta infatti di un poeta kashmiro-americano, nato a Nuova Delhi in un’India appena indipendente e costretto all’esilio negli Stati Uniti a causa della realtà violenta che imperversa nel Kashmir, annesso ad un’India a maggioranza indù pur essendo in larga parte musulmano e rivendicato dal Pakistan. Per esprimere questo disagio, il poeta usa tra le varie cose la metafora dei francobolli (“I’ve brought cash, a currency of paisleys / to buy the new stamps, rare already, blank, / no nation named on them”[1]).  

Il paese senza un ufficio postale del titolo è ovviamente il Kashmir, scritto in infinite maniere (“Kashmir, Kaschmir, Cashmere, Qashmir, Cashmir…”) per sottolineare l’inafferrabilità dei luoghi della memoria, che nel frattempo mutano ma nella nostra mente rimangono così come li abbiamo lasciato, sebbene sbiaditi e distorti dal presente che viviamo. In Kashmir, tra l’altro, diversi strati formati da migrazioni, conquiste e conversioni hanno creato una molteplicità di significati, che si rispecchiano nel nome della regione e nelle sue diverse traslitterazioni. E sono proprio questi strati, sovrapponibili ma capaci anche di creare attriti e corti circuito, a descrivere al meglio la poesia di Agha Shahid Ali. Nel descriverla Meena Alexander parla di “una geografia della dissonanza, un luogo che si apre, si scarta per rivelare un altro luogo, un altrove che il poeta deve  rivendicare per arrivare dove vuole” (Poetics of Dislocation, p.9, traduzione mia). Così può capitare che il telefono squilli in America e che, a conversazione finita, lo si riagganci in Kashmir, come accade nella poesia che dà il titolo alla raccolta.

Bisogna far notare a coloro che di fronte alla poesia sentono l’urgenza di capire che la poesia di Agha Shahid Ali è costruita per associazioni piuttosto che con un filo narrativo ben preciso. Nonostante questo il poeta parla spesso di avvenimenti reali, come quando nel 1990 l’ufficio postale di Srinagar fu chiuso per dei mesi a causa delle violente insurrezioni contro il governo e la posta si accumulava in casa di un amico del padre del poeta.  

I versi di Agha Shahid Ali sono intessuti di nostalgia e coscienza del fatto che una volta che si è partiti il paese natio e perciò anche il proprio passato non sono più recuperabili. La qualità onirica della poesia di Ali è dovuta proprio a questo desiderio di afferrare, di possedere di nuovo i posti dell’infanzia e delle proprie radici, ma è un desiderio che si compie soltanto in brevi momenti di sovrapposizioni tra più luoghi, o nei sogni, che ostinatamente e in maniera insensata ci riportano nei luoghi dove abbiamo vissuto, distorcendoli e adattandoli alla concreta realtà del presente. L’esilio, per il poeta, è come l’arabo, usato in preghiera da tutti i musulmani, ma non sempre posseduto o conosciuto. Nei distici di un ghazal, Agha Shahid Ali incastona questi sentimenti:

The only language of loss left in the world is Arabic –
These words were said to me in a language not Arabic.
[…]
From exile Mahmoud Darwish writes to the world:
You’ll all pass between the fleeting words of Arabic.

At an exhibition of miniatures, such delicate calligraphy:
Kashmiri paisleys tied into the golden hair of Arabic!
[…]
When Lorca died, they left the balconies open and saw:
his qasidas braided on the horizon, into knots of Arabic.[2]

(“Ghazal”)

Agha Shahid Ali ha introdotto gli americani alla forma poetica del ghazal, attraverso i propri componimenti e le sue traduzioni del grande poeta urdu Faiz Ahmed Faiz. Alcuni poeti americani, dopo di lui, hanno sperimentato con questa forma nella lingua inglese, come già aveva fatto García Lorca con lo spagnolo. Ali disse che ogni distico del ghazal, cioè ogni coppia di versi, che ripete nel secondo verso la rima presente nel primo distico della poesia, è come la pietra di una collana, che da sola dovrebbe continuare a brillare in vivido isolamento. 

Questo è il genere di poesia che risplende di citazioni calzanti, a volte di poeti che si sono interessati ai problemi legati al nazionalismo e all’indipendenza, per esempio Yeats (“Now and in time to be / Wherever green is worn, … / A terrible beauty is born”[3]), e altre volte di poeti amati, ad esempio Emily Dickinson, vissuta ad Amherst come lui, di cui riporta un passaggio all’inizio di un componimento (“If I could bribe them by a Rose /  I'd bring them every flower that grows./ From Amherest To Cashmire”[4]). Tuttavia, è anche un tipo di scrittura molto personale, che utilizza i versi liberi così come alcune forme poetiche ben definite (la villanelle o il ghazal), mescolando così varie tradizioni poetiche. Si riferisce a sentimenti ed esperienze molto personali di perdita e di nostalgia, così come riflessioni sul senso ultimo della storia e dei conflitti umani. 

Sull'autore: Agha Shahid Ali è nato a Nuova Delhi nel 1949. Ha studiato a Nuova Delhi e in Kashmir, prima di trasferirisi in America, dove ha vinto numerose borse di studio. Tra le sue collezioni di poesie figurano "A Nostalgist's Map of America" (1991) e "Call me Ishmael Tonight: A Book of Ghazals" (2003), oltre che "The Country Without a Post Office" (1998). Ha curato anche un libro di ghazal in lingua inglese, "Ravishing Disunities: Real Ghazal in English" (2000). E' morto prematuramente di cancro al cervello nel 2001.


[1] “Ho portato dei contanti, una valuta di tessuti a motivi cashmire / per comprare i nuovi francobolli, rari di già, spogli / nessuna nazione vi è nominata” (traduzione mia).
[2] “L’unica lingua della perdita rimasta al mondo è l’arabo / Queste parole mi furono dette in una lingua che non era l’arabo. / […] Dall’esilio Mahmoud Darwish scrive al mondo: /  Passerete tutti per le parole sfuggenti dell’arabo. / Ad una mostra di miniature, una calligrafia delicatissima: / motivi cashmire annodati ai capelli d’oro dell’arabo! / […] Quando Lorca morì, lasciarono le finestre aperte e videro: / le sue qasidas intessute nell’orizzonte, nei nodi dell’arabo” (traduzione mia).
[3]Ora e nel tempo avvenire, / Ovunque s'indossi il verde, […] / Una bellezza terribile è nata.” (da “Pasqua 1916”).
[4]Se potessi corromperli con una Rosa / Gli porterei ogni fiore che cresce / Da Amherst al Kashmir!”.

Tuesday, June 7, 2011

"Jasmine" by Bharati Mukherjee

Year of first publication: 1989
Genre: novel
Country: India / Canada / USA

Jyoti, Jasmine Vijh, Jase and Jane Ripplemeyer are not the same person. Jyoti lives in a village in Punjab, in a house without electricity and toilets, while Jasmine lives with her husband Prakash in a small apartment in Jullundhar, where she endeavours to read a VCR manual in order to brush up her English, in the wait of emigrating to America. Jase is a live-in caregiver in a spacious and expensive apartment in the Upper West Side of New York City, and has a crush on her employer, whereas Jane Ripplemeyer is the pregnant young wife of a middle-aged Iowa banker who has left his wife for her. Unfortunately, he has become an invalid after an indebted farmer shot him twice at the back, in front of the door of his house on a Christmas eve. Moreover, Jane is an illegal immigrant and has a past of violence and confusion which she is trying to forget. Yet, this is not a book with several apparently unconnected stories, but one single story, where the protagonist constantly reinvents herself, modifying her identity as her American experience goes on and as she acquires consciousness of what it means to start a new life in a new country.

Leaving behind her widowhood (her husband suddenly died, murdered by a Sikh terrorist), Jasmine is first raped by a disfigured sailor, the captain of the fishing boat with which she illegally arrived in America, and then ends up in the ghettoised neighbourhood of Flushing, in New York, hosted by a former professor of her deceased husband. Dissatisfied of that life, too similar to the one she had in India, Jasmine finds a job as a live-in caregiver for the Hayes, who treat her as if she were a host and a friend, not a maidservant. The story unfolds in endless flashbacks, so that the reader doesn’t understand almost until the end of the book how Jasmine has ended up in a rural community in Iowa, where people struggle to understand her origins and what they involve.

The plot, as the New York Times has written about another of her novels, has never been one of Bharati Mukherjee’s strengths: in several instances the development of the characters’ vicissitudes is unrealistic or even preposterous. For example, the protagonist kills a man who wanted to abuse her, stabbing him several times at the abdomen, then continues on her way, becoming a caregiver, a wife and a mother. She never mulls over the reasons leading the man, a deeply-scarred sailor evil as only characters of the fairytales can be, to earn his living with the smuggling of human beings. She is not upset nor has nightmares about it, only a slight hesitation, followed by pure pleasure, at the moment of entering the shower, a commodity that she first experienced in the motel where she was staying with this man. Jasmine is even able to tell her adopted son Du, grown up in a Vietnamese refugee camp where he has see all kinds of atrocities, that she has committed murder once, without thus damaging the mother-son relationship. The inconsistencies don’t end up here: fifteen-year-old Du suddenly decides to leave his adoptive family in order to join his sister, who works in a taco stand in Los Angeles, without saying goodbye to his father and leaving his mother at home alone with a rifle on her lap, because she has to defend herself from a depressed and homicidal-murderous neighbour who threatens to kill her. I could quote more examples, but the gist is that in this book the farewells, the losses, the traumas aren’t tackled and analysed deeply enough. In other words, the characters don’t brood over their choices as it happens in real life, and wounds don’t leave permanent scars. 

It isn’t nevertheless a boring read: the story is gripping, also thanks to the frequent use of short sentences, which sound however stilted sometimes, as if the author had wanted to reproduce the style of a male American author, concise and pragmatic. Twenty years ago for the themes tackled the book was probably rather innovative and certainly shocking. The America described by Bharati Mukherjee is a country of endless possibilities, where an illegal immigrant who has committed a murder can become a respectable Mrs. Ripplemeyer, but it’s also a dangerous country, where a father and loving husband becomes an invalid following a gun fire or where illegal immigration flows illicitly without Americans realizing it.

Jasmine has always lived on the edge of change: that same Punjab where an astrologer predicted her a life as a widow has been swept away by scooters and television, and also the farmers in Iowa have been living an era of great changes. New, hyphenated identities are in town and new possibilities open up for young farmers of the area. By the end of the book Jasmine will need to choosee between an old life of duties, in other words between the life of a caregiver, and a new freer existence, identified by the American spirit and the expansion towards the West. The ending catches the reader rather unprepared and leaves a feeling of uneasiness, especially for ethical reasons, but also for structural coherence.

The protagonist becomes first infatuated with and then falls in love with her employer, Taylor Hayes:  ‘I fell in love with his world, its ease, its careless confidence and graceful self-absorption. I wanted to become the person they thought they saw: humorous, intelligent, refined, affectionate.’ (p.171). Taylor is, in other words, like America itself, unconsciously fascinating, so much that it inspires a desire to be imitated and assimilated. At a certain point in the novel, Du’s teacher says that he is in a hurry to become all American. This is exactly what Jasmine is trying to do: she is constantly replacing saris with T-shirts and cords, learning the names of local baseball teams, buying Dairy Queen at the mall and even learning how to walk like an American. It is a complete metamorphosis: by the end of the book the protagonist is conscious of having completely cut off her Indian self, differently from her son who has kept in contact with his community of origin, but she doesn’t seem to make any steps towards her son’s direction. It seems to me that this choice reflects the culture of the ‘melting pot’ still popular in the 1980s and 90s, when immigrants were supposed to melt into a more homogenous culture.

About the author: Bharati Mukherjee was born in Calcutta in 1940 into a wealthy family and was educated in India and the USA (Iowa). She has lived for ten years in Canada with her husband and has Canadian citizenship, but now she lives in the USA. Her works often relate the difficulties of forging a new American identity and the problems faced by Asian Americans. Among her novels, at least “Desirable Daughters” (2002) deserves to be mentioned, and among her collections of short stories her most influential work has been “The Middleman and Other Stories” (1988), which won the National Book Critics Circle Award and contains the short stories that was the bud of her novel “Jasmine” (1989).  

“Jasmine” di Bharati Mukherjee


Anno di prima pubblicazione: 1989
Genere: romanzo
Paese: India / Canada / USA

Jyoti, Jasmine Vijh, Jase e Jane Ripplemeyer non sono la stessa persona. Jyoti vive in un villaggio del Punjab indiano, in una casa senza elettricità e senza servizi igienici, Jasmine invece vive con il marito Prakash in un piccolo appartamento a Jullundhar, dove si sforza di leggere il manuale d’installazione di un videoregistratore per esercitare il suo inglese, in attesa di poter emigrare in America. Jase è una ‘live-in caregiver’, cioè una bambinaia, in un ampio e costoso appartamento dell’Upper West Side di New York, ed ha una cotta per il suo datore di lavoro, mentre Jane Ripplemeyer è la giovane moglie di un banchiere dell’Iowa di mezza età che per lei ha lasciato la moglie e da cui aspetta un bambino. Purtroppo però lui è diventato invalido dopo che alla vigilia di Natale un agricoltore sommerso dai debiti gli ha sparato due colpi di pistola alla schiena davanti alla porta di casa, mentre lei si trova illegalmente nel paese e ha un passato di violenza e confusione che cerca di dimenticare. Non si tratta però di un libro in cui si intrecciano diverse storie apparentemente scollegate tra loro, ma un’unica vicenda, in cui la protagonista si reinventa continuamente, modificando la propria identità man mano che la sua esperienza americana prosegue e man mano che conquista consapevolezza di che cosa significhi rifarsi una vita in un paese nuovo.

Lasciandosi alle spalle la vedovanza (il marito viene improvvisamente ucciso da un attentatore Sikh), Jasmine viene prima abusata dal marinaio sfigurato che comandava la nave container con cui è arrivata illegalmente in America, poi finisce nel quartiere-ghetto di Flushing, a New York, ospite del vecchio professore del marito morto. Insoddisfatta di quella vita, troppo simile a quella che conduceva in India, Jasmine trova lavoro come bambinaia presso gli Hayes, che la trattano come fosse un’ospite e un’amica, anziché una domestica. La storia si dipana con continui flashback, perciò non capiamo fino quasi alla fine del libro come Jasmine sia finita in una comunità rurale dell’Iowa, dove la gente fa fatica a capire le sue origini e che cosa implicano.

La trama, come scrisse il New York Times a proposito di un altro libro dell’autrice, non è mai stato il punto forte di Bharati Mukherjee: diversi sono i punti in cui il dipanarsi delle vicissitudini dei personaggi diventa poco realistico o addirittura assurdo. Per esempio, la protagonista uccide un uomo che la voleva violentare, infliggendogli numerose coltellate all’addome, poi prosegue per la sua strada, diventano bambinaia, moglie e madre. Non si arrovella mai sulle ragioni che avevano portato l’uomo, un marinaio dal volto sfigurato, cattivo come solo i personaggi delle favole, a guadagnarsi da vivere con il contrabbando di vite umane. Non ha turbamenti, né incubi, se non una leggera esitazione, seguita da puro piacere, quando entro in doccia, essendo questa una comodità provata per la prima volta proprio nella camera del motel doveva alloggiava con quest’uomo. Jasmine può persino dire a Du, il figlio adottivo, cresciuto nei campi profughi vietnamiti dove ha visto ogni tipo di atrocità, che una volta ha ucciso un uomo, senza che il rapporto madre-figlio si incrini. Ma le inconsistenze non finiscono qui: Du, che ha solo quindic’anni, decide di lasciare la famiglia adottiva per raggiungere la sorella che lavora in uno stand di tacos a Los Angeles, senza neanche salutare il padre e lasciando la madre con un fucile in mano per difendersi dal vicino di casa depresso ed esasperato che minaccia di ucciderla (o di uccidersi). Potrei fare molti altri esempi, ma il succo è questo: gli addii, le perdite, i traumi non sono affrontati ed analizzati in modo abbastanza approfondito. In altre parole i personaggi non rimuginano sulle loro scelte, come succede nella realtà, e le ferite non lasciano cicatrici indelebili. 

Si tratta tuttavia di un libro per niente noioso, dal ritmo abbastanza incalzante, anche grazie anche all’utilizzo di frasi spesso molto corte, che però suonano talvolta innaturali, come se l’autrice avesse cercato di riprodurre il romanzo di un perfetto scrittore maschio ed americano, conciso e pragmatico. Vent’anni fa per i temi affrontati il libro era probabilmente abbastanza innovativo e certamente scioccante. L’America di Bharati Mukherjee è il paese dalle mille possibilità, dove un’immigrata illegale che ha ucciso un uomo può diventare una rispettabile Mrs. Ripplemeyer, ma è anche un paese pericoloso, dove un padre di famiglia e un marito amorevole può rimanere invalido in seguito ad un conflitto a fuoco o dove l’immigrazione illegale scorre clandestinamente senza che gli americani ne siano coscienti.

Jasmine ha sempre vissuto sull’orlo del cambiamento: il Punjab in cui un astrologo le aveva predetto una vita da vedova è stato spazzato via nel giro di qualche anno dalla rivoluzione degli scooter e della televisione, ed anche i contadini dell’Iowa stanno vivendo un’epoca di cambiamenti. Nuove identità segnate da un trattino sono arrivate in città e nuove possibilità si aprono per i giovani agricoltori della zona. Alla fine Jasmine dovrà scegliere tra una vecchia vita di oneri e doveri, in altre parole una vita da ‘care-giver’, e una nuova esistenza più libera, identificata con lo spirito americano e l’espansione verso ovest. Il finale spiazza e mette molto a disagio, soprattutto per motivi etici, ma anche strutturali al libro.

La protagonista si invaghisce e poi innamora del suo datore di lavoro, Taylor Hayes: ‘Mi innamorai del suo mondo, del suo essere sempre a proprio agio, della sua spontanea sicurezza e del suo aggraziato auto-assorbimento. Volevo diventare la persona che pensavano di vedere: divertente, intelligente, raffinata, affettuosa.(p.171). Taylor è, in poche parole, l’America stessa, inconsciamente affascinante, tanto da voler essere imitata ed assimilata. Ad un certo punto l’insegnante di Du osserva come egli stia cercando di diventare americano il più in fretta possibile. E’ esattamente quello che cerca di fare anche Jasmine: sostituisce il sari con ‘T-shirts and cords’, impara i nomi delle squadre di baseball locali e compra Dairy Queen al centro commerciale, imparando anche a camminare come un’americana. E’ una metamorfosi completa: nel finale la protagonista è cosciente di aver completamente reciso la sua metà indiana, a differenza del figlio che ha mantenuto dei contatti con la comunità di origine, ma non sembra fare alcun passo per andare nella direzione del figlio. A me sembra che questa scelta rifletta un po’ quella cultura del ‘melting pot’ che andava di moda in America negli anni ’80 e ’90: un calderone in cui il nuovo immigrato si immerge per sciogliersi in una cultura più omogenea.

Sull’autrice: Bharati Mukherjee è nata a Calcutta nel 1940 in una famiglia benestante ed ha studiato sia in India che negli Stati Uniti (Iowa). Ha vissuto per una decina d’anni in Canada con il marito, prendendo la nazionalità canadese, ma ora vive negli Stati Uniti, dove insegna scrittura creativa. I suoi lavori parlano spesso delle difficoltà nel forgiarsi una nuova identità americana e dei problemi affrontati dalla comunità indiano-americana. Tra i suoi romanzi, ricordiamo “Desirable Daughters” (2002) e tra le raccolte di racconti “The Middleman and Other Stories” (1988), che ha vinto il National Book Critics Circle Award e che contiene la storia da cui è nato il germe del romanzo “Jasmine” (1989). In italiano, a quanto mi risulta, è stata tradotta solo la raccolta di racconti "Episodi isolati" (edito dalla Feltrinelli, 1992, e pubblicato originariamente negli Stati Uniti nel 1985 con il titolo "Darkness").

Friday, June 3, 2011

V.S. Naipaul e le donne

Sir Vidia ne ha combinata un'altra. Questa volta nel mirino non c'è Derek Walcott, né mezza Africa, e neppure l'India, ma l'intero genere femminile, ovvero metà del globo. Già, perché V.S. Naipaul, scrittore di origine trinidadense e vincitore del Premio Nobel per la Letteratura, ha recentemente affermato in un'intervista per la Royal Geographic Society che nessuna scrittrice donna, neanche Jane Austen, può considerasi alla pari con lui. Le donne, secondo V.S. Naipaul, scrivono "spazzatura sentimentale", in quantità così grande che lui, dopo un paragrafo o due, è già in grado di individuare il sesso dell'autore. Nel tritacarne del controverso autore de "La Maschera dell'Africa" è finita anche la sua ex redattrice, Diana Athill, che quando è passata dal leggere i libri in via di pubblicazione allo scriverli ha perso la stima di Naipaul. Noto per le sue dichiarazioni poco politically correct e per i suoi giudizi lapidari sugli scrittori di mezzo mondo, V.S. Naipaul è stato anche al centro di numerose faide tra scrittori ed è anche noto per considerarsi ormai da decenni il più grande scrittore di lingua inglese. Il talento non gli manca, questo sembra scontato dirlo, ma la modestia e il tatto, nonché il buon senso, questa è un'altra cosa.   

   

Non è l'unica notizia recente per quanto riguarda le donne e la scrittura. Esquire, una rivista on-line per uomini, ha compilato una lista di libri che tutti gli uomini dovrebbero leggere, l'ennesima. Tra questi 75 libri non ce n'é nessuno scritto da una donna, tranne uno scritto da tale Flannery O'Connor. Joyland, che si occupa principalmente di "short fiction",  si è divertito a postare una lista dei 250 libri scritti da una donna che ogni uomo dovrebbe leggere. Ormai non bado più a queste liste: sono molto spesso discutibili e inutili. Non ho voglia di fare l'ennesima conta, ma sono sicura, per esempio, che sia nella lista di Esquire che in quella di Joyland la stragrande maggioranza degli autori e delle autrici, scrivono in inglese. Quel che sembra certo, ad ogni modo, è che gli uomini non leggono e non stimano abbastanza i libri scritti dalle donne. Sarà per pregiudizio oppure le donne veramente non sanno scrivere?

Thursday, June 2, 2011

"Fedeltà" di Grace Paley

La mia recensione di "Fedeltà", ultima raccolta di poesie della scrittrice ed attivista newyorkese Grace Paley (edita da Minimum Fax per la collana Minimum Classics, 13 €) è uscita per la rivista on-line Paperstreet e si trova a questo link. Nel frattempo vi lascio una delle sue poesie più famose, prima in inglese e poi nella traduzione italiana.



My review of "Fidelity", the last collection of poems by New York-born writer and activist Grace Paley, has been published in Paperstreet, an Italian on-line cultural magazine. Here I'll post one of her most famous poems, first in English and then in the Italian translation.








Responsibility


It is the responsibility of society to let the poet be a poet
It is the responsibility of the poet to be a woman
It is the responsibility of the poet to stand on street corners
giving out poems and beautifully written leaflets
also leaflets you can hardly bear to look at
because of the screaming rhetoric
It is the responsibility of the poet to be lazy
to hang out and prophesy
It is the responsibility of the poet not to pay war taxes
It is the responsibility of the poet to go in and out of ivory
towers and two-room apartments on Avenue C
and buckwheat fields and army camps
It is the responsibility of the male poet to be a woman
It is the responsibility of the female poet to be a woman
It is the poet's responsibility to speak truth to power as the
Quakers say
It is the poet's responsibility to learn the truth from the
powerless
It is the responsibility of the poet to say many times: there is no
freedom without justice and this means economic
justice and love justice
It is the responsibility of the poet to sing this in all the original
and traditional tunes of singing and telling poems
It is the responsibility of the poet to listen to gossip and pass it
on in the way storytellers decant the story of life
There is no freedom without fear and bravery there is no
freedom unless
earth and air and water continue and children
also continue
It is the responsibility of the poet to be a woman to keep an eye on
this world and cry out like Cassandra, but be
listened to this time.



Responsabilità


È responsabilità della società accettare che il poeta sia un poeta
È responsabilità del poeta essere una donna
È responsabilità del poeta stare agli angoli delle strade
consegnando poesie e volantini scritti mirabilmente
o volantini dalla retorica esasperata
inguardabili
È responsabilità del poeta essere pigro andare in giro a vaticinare
È responsabilità del poeta non pagare tasse destinate alla guerra
È responsabilità del poeta entrare e uscire da torri
d’avorio e bilocali in periferia
e campi di granoturco e accampamenti militari
È responsabilità del poeta maschio essere una donna
È responsabilità del poeta femmina essere una donna
È responsabilità di chi è poeta affermare la verità contro il potere come dicono
i Quaccheri
È responsabilità di chi è poeta imparare la verità da chi non ha potere
È responsabilità del poeta dire molte volte: non c’è
libertà senza giustizia e questo significa giustizia
economica e giustizia degli affetti
È responsabilità del poeta cantarlo in tutte le chiavi
originali e tradizionali in cui si cantano e dicono le poesie
È responsabilità del poeta ascoltare le chiacchiere e rimetterle
in giro come i cantastorie che travasano il racconto della vita
Non c’è libertà senza paura e coraggio. Non c’è
libertà se non continuano
la terra e l’aria e l’acqua e se non continuano
anche i bambini
È responsabilità del poeta essere una donna sorvegliare
il mondo e gridare come Cassandra ma stavolta
essere ascoltata.