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Wednesday, May 19, 2010

5. “Le dodici domande” di Vikas Swarup


Anno di prima pubblicazione: 2005
Genere: romanzo (commerciale?)
Country: India

In English: Q & A by Vikas Swarup (then republished as Slumdog Millionaire)

Ram Mohammad Thomas non è Jamal Malik, vorrei chiarire questo prima di cominciare. Il film è solo ispirato al film, il che significa che gli sceneggiatori hanno preso l’idea originale di Swarup ed hanno creato un film che solo parzialmente corrisponde al libro. L’idea è ben costruita ed è la vera carta vincente del romanzo: un abitante degli slum di Bombay partecipa ad un quiz televisivo e casualmente – o per merito del destino - sa rispondere a tutte le domande perché in qualche modo durante la sua vita di ‘cane delle baraccopoli’ ha vissuto delle esperienze che gli hanno permesso di conoscere la risposta a tutti i quesiti posti dal gioco a premi. Attraverso dei flashback, uno per ogni domanda, arriviamo quindi a ricostruire la rocambolesca vita del protagonista. Il tutto in ordine rigorosamente non cronologico.
Ram Mohammad Thomas è un trovatello e porta tre nomi, uno per ogni religione. In un certo senso è l’every man indiano. Quando il conduttore del quiz a cui sta partecipando gli chiede a che religione appartiene risponde: “Hari è a levante, Allah a ponente. Guarda nel tuo cuore, vi troverai sia Karim che Rama”. Nella sua vita Ram Mohammed è stato testimone di innumerevoli atrocità: da preti cattolici cocainomani e pervertiti a padri alcolisti e violenti, passando per ragazzine costrette a prostituirsi, falsi eroi di guerra e bambini costretti a fare i borseggiatori nei treni locali. Si tratta di un frullato di tematiche dove purtroppo nessuna viene approfondita più di tanto e tutte vengono trattate con aria ‘scanzonata’. E’ una tecnica ricorrente della recente narrativa cosiddetta ‘commerciale’ indiana ad uso occidentale (vedi Anita Nair, Farahad Zama e, in parte, Vikram Chandra) che mi devo ancora spiegare appieno.
Le dodici domande è una storia sull’eterna opposizione ricco-povero e buono-cattivo, dove i ricchi sono in prevalenza cattivi, egoisti e violenti (Maman, Shantaram, Swapna Devi, Prem Kumar), mentre i poveri sono buoni e generosi, anche se costretti all’illegalità per sopravvivere. Swarup dipinge la società indiana in modo cinico e impietoso, alla maniera de La Tigre Bianca di Aravind Adiga in un certo senso (anche se la qualità letteraria del vincitore del Booker Prize non si può paragonare a questo romanzo e, anzi, dovrei riscrivere quello che scrissi tempo addietro a riguardo). E’ l’India nera quella che descrive Vikas Swarup, quella che pullula di criminalità e corruzione, gente ammassata negli slum che cerca di barcamenarsi con le poche rupie che guadagna, non rinunciando mai al sogno di una vita migliore. Mi chiedo se Le Dodici Domande sia un libro scritto anche per le masse indiane, che chiedono ‘escapismo’, o se sia furbamente pensato per noi occidentali, assetati di queste storie di ‘India quasi noir’, oscura, in contrapposizione con l’immagine ormai consunta dell’India della spiritualità.
Bisogna riconoscere che si tratta di fiction popolare e, credo, non di un romanzo che aspiri a grandi meriti letterari (c’è poca caratterizzazione e psicologia dei personaggi, nonostante la scrittura sia quel che si dice ‘frizzante’). Detto questo si può riconoscere che il libro non è malaccio, anche se io lo relegherei a lettura di viaggio, per quando si ha bisogno di qualcosa di leggero e che si possa mettere via e riprendere numerose volte.
Un paio di episodi mostrano un’omofobia preoccupante: ci sono due personaggi omosessuali, entrambi pervertiti e pedofili (i due episodi, tra l’altro abbastanza gratuiti, sono stati sapientemente omessi nel film). Normalmente, se un personaggio è omofobico non vuol dire che lo sia anche l’autore o il libro intero, ma in questo caso l’autore non offre nessun indizio che mi faccia dubitare dell’equivalenza di vedute sul tema tra uno e l’altro. Ecco, questo mi ha rovinato davvero la lettura.


Sull’autore: Vikas Swarup è nato ad Allahabad, in India, da una famiglia di avvocati. Di professione fa il diplomatico. Le dodici domande, il cui titolo originale è Q & A, è il suo primo romanzo, scritto nel giro di poche settimane al portatile durante un soggiorno a Londra senza la famiglia. Il suo secondo romanzo s’intitola I sei sospetti, ed è stato pubblicato nel 2008.

Sunday, May 9, 2010

Slumdog Millionaire: spazzatura o capolavoro?

La mia prossima riflessione (ribadisco che io non scrivo quasi mai recensioni, ma riflessioni sui libri che leggo) sarà sul libro Le Dodici Domande di Vikas Swarup, autore che tra l’altro sarà anche al Salone del Libro di Torino. Le dodici domande (Q & A il titolo in inglese) è il romanzo da cui è stato tratto il film The Millionaire (Danny Boyle, 2008)*, che si è portato a casa ben otto premi Oscar, tra cui quelli importantissimi di “miglior film” e “miglior regia”. Prima di parlarvi del libro vorrei parlarvi del film e dei suoi pregi e demeriti.

Numerosi scrittori ed intellettuali indiani si sono espressi, favorevolmente e sfavorevolmente, nei confronti del film. Il commento più famoso è forse quello di Salman Rushdie , che ha ammesso di non essere un grande fan di Slumdog Millionaire, perché il film impila un’impossibilità dopo l’altra: due ragazzi degli slum che parlano un inglese perfetto, persino con inflessione londinese, e poi cadendo da un treno si ritrovano guarda caso di fronte al Taj Mahal, simbolo par excellence delle meraviglie indiane. I difetti del film, secondo Rushdie, derivano dal libro mediocre da cui è stato tratto. Secondo lui ci dev’essere un livello di plausibilità persino nel realismo magico. Detto da uno che ha scritto un romanzo su due attori il cui aereo scoppia in volo e dopo essere precipitati per migliaia di metri, non solo sopravvivono ma uno dei due poi diventa una specie di satiro con mezzo corpo caprino, è il massimo dello spasso. Non so se Rushdie abbia voluto essere ironico oppure se sentiva, come ho sentito io, che Slumdog Millionaire (e il libro da cui è stato tratto) non ha “deciso” chiaramente se vuole essere fantastico o realistico. Poi c’è tutta la questione della plausibilità de I Figli della Mezzanotte, percepito come fantastico in Europa e realistico in India. Molte persone che hanno letto I Figli della Mezzanotte si sono lamentate dell’implausibilità della storia, proprio come ha fatto lo scrittore anglo-indiano con il film di Danny Boyle. La mia risposta nel caso de I Figli della Mezzanotte è che la storia non vuole essere plausibile, e che il realismo non è per forza lo scopo primario che lo scrittore si prefigge. Si potrebbe dire la stessa cosa di Slumdog Millionaire, se non fosse che le sue implausibilità non hanno scopo. Mi spiego meglio: ne I Figli della Mezzanotte la vita di Saleem è un’allegoria della storia contemporanea dell’India. La sua telepatia e le sue conferenze con tutti gli altri bambini nati allo scoccare della mezzanotte nel giorno dell’indipendenza dell’India rappresentano gli sforzi dell’India post-indipendente di rimanere unita pur nella diversità dei suoi abitanti (per non parlare del fatto che tutto potrebbe semplicemente essere nella testa di Saleem, soluzione straordinaria per chi non ama il fantastico). Nel film di Danny Boyle, invece, le implausibilità non hanno scopo, come ho detto sopra. Per esempio, che Jamal, cresciuto in una baraccopoli di Bombay, parli inglese con inflessione londinese, è non solo improbabile ma anche insensato. Ci voleva tanto a scegliere un attore indiano (non me ne voglia Dev Patel, che mi è piaciuto tanto in Skins)? A mio parere è un grave errore da parte degli sceneggiatori (e dire che il film ha vinto anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale), che avrebbero potuto spiegare anche solo in trenta secondi perché Jamal parli così bene l’inglese (e infatti Swarup lo fa nel libro). Come spiega molto bene Arundhati Roy in questo articolo (tradotto anche da Internazionale nel marzo 2009), nella scena dell’interrogatorio, la sicurezza di sé emanata dal ragazzo torturato, palesemente britannico, initimidisce il poliziotto indiano, anche se è lui in realtà che lo sta torturando. Non si tratta di un problema di recitazione, continua Arundhati Roy, ma di uno squilibrio del PH della scena, un problema di “semiotica” aggiungerei io.

Un’altra critica fatta al film, specialmente dai nazionalisti indiani (ma quelli hanno da ridire su tutto), è che non è una bella immagine dell’India quella che è stata proiettata in migliaia di schermi in tutto il mondo. E’ un po’ lo stesso discorso che è stato fatto per Gomorra (o per Precious per quanto riguarda la comunità afro-americana). Secondo me è un discorso ridicolo: queste realtà esistono, anche se non sono molto spesso rappresentate al cinema. In altre parole, c’è anche un’India ‘not-shining’. Ma c’è chi ha fatto lo stesso lavoro molto meglio, Mira Nair in Salaam Bombay! per esempio, per cui non vedo niente di rivoluzionario in Slumdog Millionaire. La povertà e lo slum sono inoltre resi quasi glamour nella girandola di cose all-Indian del film (il call centre, il chai, il Taj Mahal, i gangster, i bambini mendicanti, le prostitute, i sari, la corruzione, il cricket e chi più ne ha più ne metta).

Il film ha anche dei pregi, per carità. E’ piacevole, una ‘feel-good comedy’, in fin dei conti. E’ ‘visualmente eccellente’, come l’ha definito Rushdie, e ‘girato bene’, come ha ammesso la Roy. Ha una bellissima colonna sonora (di A.R. Rahman, un maestro), una fotografia impeccabile, un ritmo incalzante ed è un trait d’union simpatico e azzeccato tra i film di Bollywood, escapisti ed irreali fino all’eccesso, e i film occidentali più impegnati. Non è il capolavoro del secolo - d’altronde si sa che i film premiati agli Oscar non lo sono mai – ma è godibile e fruibile soprattutto per quella fetta di pubblico per cui, volente o nolente, questa sarà l’unica escursione cinematografica in India.



* In italiano hanno inspiegabilmente tolto il neologismo ‘slumdog’ dal titolo. L’espressione ha causato polemiche in India, in quanto è un termine dispregiativo, seppur inventato, nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ‘slum’, i quartieri più poveri delle metropoli indiane. Tradotto letteralmente ‘slumdog’ significa più o meno ‘cane dei bassifondi’.