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Tuesday, July 27, 2010

“Mamba Boy” di Nadifa Mohamed + random questions sulla letteratura africana

Anno di prima pubblicazione: 2010
Genere: romanzo
Paese: Scrittrice di origine somala “based” in Gran Bretagna. Romanzo “itinerante” ambientato un po’ in tutta l’Africa orientale e nel Medio Oriente, fino a raggiungere il Galles nel finale.

La recensione di questo è libro è uscita nella rivista di cultura on-line Paper Street ed è disponibile a questo link.

Colgo l’occasione per segnalarvi due puntate della rivista “Che libro fa…” di Giovanna Zucconi che sollevano domande importanti riguardo alla letteratura africana postcoloniale (ma sarebbe ora di abolire questo termine, perché non tutta la letteratura africana tratta necessariamente di tematiche legate al postcolonialismo). La prima è: “perché i kenioti scrivono così poco? E perché lasciano agli stranieri, soprattutto ai giornalisti, il compito di raccontare la loro terra?”. Nel tentativo di portarci un paio di esempi di kenioti che scrivono l’autrice ci nomina Stanley Gazemba, che ha vinto il più importante premio letterario del Kenya e che vive in uno slum, dimostrando che la letteratura non è solo appannaggio dei ricchi, e Lily Mabura, che è stata finalista del Caine Prize con la sua storia “How Shall We Kill the Bishop”.

L’atro quesito sollevato recentemente da “Che libro fa…” riguardo alla letteratura africana è: “ma i neri sudafricani leggono?”. Con riferimento ad un articolo pubblicato sul Times sudafricano che ha creato numerose polemiche e aperto un dibattito, appaiono cause diverse dalla presunzione, razzista, che i neri non leggano. Ovvero, non ci sono biblioteche nelle scuole, scarseggiano le librerie (l’unica di Soweto ha appena chiuso) e, non da ultimi, la gente ha altre cose a cui badare, come ad esempio procacciarsi il cibo per il pranzo di domani. Credo che sia il problema di molti paesi africani. Progetti timidi e personali spuntano qua e là (con una mia amica un tempo era nata l’idea di spedire dei libri in Afghanistan, vedi il banner “A Modest Proposal” qui a fianco), ma chissà perché le persone più volonterose sono sempre quelle prive di fondi. E’ vero: ci sono cose più importanti, come aprire ospedali ed ambulatori, ma il progresso si ottiene solo attraverso l’istruzione, l’ha detto qualcuno di famoso, credo.

Wednesday, May 19, 2010

Italia e Corno d’Africa: “Regina di Fiori e di Perle” di Gabriella Ghermandi

Oggi è cominciata Incroci di Civiltà, una manifestazione letteraria veneziana che già da qualche anno ha portato in laguna diversi scrittori provenienti da tutto il mondo (l’anno scorso per esempio c’è stato Salman Rushdie, ne ho scritto qualcosina qui). In questa edizione, tra gli altri, Vikram Seth, Jeanette Winterson e Tiziano Scarpa. Non mancherò ovviamente di parlare degli incontri a cui assisterò.

Nel frattempo, vorrei parlarvi di uno spettacolo di narrazione e musica avvenuto proprio nell’ambito di questa manifestazione ormai un paio di anni fa. Ho già scritto diversi post riguardo alla letteratura italiana postcoloniale e in particolare sull’Italia e il Corno d’Africa.
Ora vorrei parlarvi di Gabriella Ghermandi e del suo romanzo “Regina di Fiori e di Perle”.

Gabriella Ghermandi, italo-etiope-eritrea, è nata ad Addis Abeba nel 1965, e si è trasferita a Bologna, città d'origine del padre, nel 1979. Seguendo l'arte della metafora tipica della tradizione culturale etiope, scrive e interpreta spettacoli di narrazione. E' fondatrice, insieme ad altri scrittori, della rivista online "El Ghibli", che si occupa di scrittori migranti. Il suo primo romanzo è "Regina di Fiori e di Perle" (Donzelli Editore, 2007).

L'allestimento dello spettacolo era molto semplice: Gabriella raccontava la sua esperienza di italo-etiope-eritrea, della vita nel Corno d'Africa e del colonialismo italiano, intervallando i racconti e le letture con canzoni in amarico. Mi ha colpito molto quello che ha detto all'inizio dello spettacolo, e cioè che il colonialismo italiano in Africa è un pezzo di storia che nel nostro paese è stato scolorito fino a diventare invisibile, lasciando di quel periodo solo due concetti: quello di "italiani brava gente", che hanno costruito strade e ferrovie e trattato come pari gli abitanti del luogo, e quello che recita "Noi abbiamo usato i gas nervini per conquistare l'Etiopia". Quello che viene tralasciato, che è stato dimenticato, che non ci viene detto, sono le infinite storie personali che si sono intrecciate plasmando quel pezzo di storia. Le sofferenze e le ingiustizie raccontate da Gabriella fanno star male, toccano nel profondo, ti cambiano.

Gabriella intervallava racconti della sua storia personale con letture dal suo romanzo. Parlando della sua identità italiana, impostale dalla madre che aveva sofferto a causa di quel colonialismo italiano, Gabriella ricorda di aver sentito di essere africana al suo arrivo in Italia. A questo punto si cambia d'abito, abbandonando gli abiti occidentali per il costume tradizionale etiopico-eritreo, la testa coperta da uno scialle arancione e dei sandali ai piedi. Gabriella accende un incenso e ci porta in Etiopia. E' incredibile come i suoi lineamenti, che mi parevano così occidentali all'inizio della narrazione, siano diventati più africani con il solo ausilio di uno scialle. Gabriella canta dei canti tradizionali etiopi, accompagnata dal musicista burkinabè Gabin Dabirè, che canta anche delle canzoni nella sua lingua. Due parti d'Africa così distanti geograficamente, culturalmente e lingusiticamente che si fondono magicamente. La fine dello spettacolo è sancita da un'offerta: Gabriella ha cucinato del pane speziato etiope da offrire al pubblico. Poi scende dal palco e viene tra il pubblico: conosce tutti, persino la ragazza seduta accanto a me! Che persone squisite gli scrittori, sono come me, come te, come tutti...

Il romanzo di Gabriella Ghermandi inizia a Debre Zeit, a cinquanta chilometri da Addis Abeba, in una grande famiglia patriarcale. Un forte legame unisce il vecchio Yacob e la più piccola di casa, Mahlet. Lui la conosce meglio di chiunque altro: la guarda negli occhi, mentre lei divora le storie che lui le narra. Così, un giorno si mette a raccontarle del tempo degli italiani, venuti ad occupare quella terra, e degli arbegnà, i fieri guerrieri che li hanno combattuti. Quel giorno, Mahlet fa una promessa: da grande andrà nella terra degli italiani e si metterà a raccontare...

Vi offro un estratto del libro di Gabriella. Yacob fa parte della resistenza che combatte gli italiani che stanno cercando di conquistare l'Etiopia. Qui riceve la visita della sorella Amarech, innamorata di un italiano e di lui incinta:

Volevo arrabbiarmi, almeno un po', ma non ci riuscii. Con mia meraviglia, i sogni e le preghiere di Alemtsehay e mamma Worknesh avevano lavato via tutto. Mi arresi, quasi.
"Va bene, parlami di lui facendo finta che sia un habeshà*".
Lei rise. "Yacob è impossibile!"
" E perché?".
"Lui è molto diverso da noi. Troppo. Tutti i suoi colori sono diversi dai nostri. Sai, ha un pezzo di cielo negli occhi. Il cielo di fine Meskerem, quando tornano le rondini. Sembra che Dio gli abbia dato quegli occhi per farci vedere il cielo da vicino. E i suoi capelli... anche quelli... sai come sono? Dorati come il tief** maturo, che annuncia la festa del raccolto. Quando le case si svuotano degli uomini e nei campi, oltre ai luccichii dei falcetti, ci sono i canti di ringraziamento. Tutti i suoi colori sono i colori della stagione dei frutti e del raccolto. Può un uomo che porta i segni della natura ricca e generosa essere una cattiva persona? Yacob, lui è il mio uomo - la sua voce si fece sospesa, per aria, poi scese, intima, vicina - parla benissimo l'amarico!"

* termine usato dagli etiopi per indicare se stessi
** cereale autoctono