Monday, June 28, 2010

Introduzione a “Chiara Luce del Giorno” di Anita Desai a cura di Kamila Shamsie (mia traduzione)

Siccome con il gruppo di Anobii "Un Filo d'India" ho creato e sto mediando (più o meno) un gruppo di lettura per "Chiara Luce del Giorno" di Anita Desai, mi è parso carino tradurre un'introduzione al romanzo scritta dalla scrittrice pachistana Kamila Shamsie (del cui ultimo libro avevo parlato qui).

I piccioni, ci dice Anita Desai in “Chiara Luce del Giorno” hanno un “talento unico nel combinare rimostranza e soddisfazione in un singolo tono”. E’ uno dei pochi esempi dove si sbaglia. Non riguardo al tono ovviamente – come accade molto spesso nella scrittura della Desai, le sue facoltà di osservazione sono così acute che è impossibile criticarle o persino credere che per talmente tanto tempo non abbiamo visto le cose esattamente come ce le rivela lei. Dopotutto quello è il potere della sua scrittura. Le descrizioni sembrano rivelazioni: perciò ci viene rivelato che la terra bagnata e le piante rinfrescate hanno un “odore verde”, che le buganvillee spinose non dovrebbero più sembrare solo sfiorare i muri, ma graffiarli, che una lumaca che si arrampica su una zolla di terra per poi cadere è un “eterno minuscolo Sisifo”. Dove si sbaglia, però, è nell’attribuire la singolarità del talento ai piccioni per la loro abilità nel tenere due note nello stesso tono.
In “Chiara Luce del Giorno”, la Casa (che richiede la lettera maiuscola di un nome proprio perché nel libro è un personaggio talmente vivido) mantiene almeno due toni in uno allo stesso tempo. E’ prigione o rifugio? Un passato chiuso in un cassetto o un’oasi di continuità tra un clamore di cambiamenti? Chi sono i fratelli fortunati – quelli che sono scappati (Raja e Tara) o quelli che sono rimasti (Bim e Baba)? Dalle prime due frasi siamo in un mondo di dualità:
I cuculi cominciarono a lanciare i loro richiami ancor prima dell’alba. Le loro voci emergevano come un concerto di campane dalle fronde oscure degli alberi, chiamandosi e facendosi eco reciprocamente, schernendosi e istigandosi a vicenda con trilli via via più acuti.

Dal concerto di campane, che annunciano l’inizio della giornata, scivoliamo in una gara di acutezza – armonia e cacofonia separate solo da una virgola. Coloro che parlano delle superfici di calma o dell’immobilità ingannevole di Anita Desai dimenticano completamente la sua abilità di far sentire a disagio i suoi lettori fin dall’inizio, a maggior ragione perché è incerta la natura di quel disagio. Da dove spunta? A chi è diretto? Se questo è un genere, potrebbe essere chiamato gotico indiano. Come accade con i migliori scrittori del Southern Gothic americano, la Desai non sovrappone semplicemente bellezza e bruttezza, ma rende alle volte impossibile districare le due cose. I rapporti tra Bim e i suoi tre fratelli sono allo stesso tempo terribili e teneri; la vita naturale che abbonda intorno alla casa – i pappagalli, i gulmohar, gli alberi di guava, i cuculi, i piccioni – sono simbolo sia di vita che dello stato di abbandono; Mira-masi è grottesca e straziante. E la dualità gotica del romanzo continua in altri modi: tutti gli eventi nel presente della storia sono banali (una sorella arriva in visita, si beve il tè con i vicini, un fratello esce dal cancello principale e poi torna a casa, viene presentato e rifiutato un invito ad un matrimonio) ma sconvolgenti (violenza, tensione, imprevedibilità). E sì, come nello stile gotico tradizionale, si menzionano i fantasmi – il fantasma di Mira-Masi, dei genitori di Bim e Tara, della mucca la cui carcassa marcisce ancora in fondo al pozzo. Ma il vero fantasma – quello che abita in ogni angolo della casa e cammina accanto a Bim e a Tara, un terzo uomo che non si vede ma si percepisce in ogni conversazione - è il passato.
Prima di ogni altra cosa, è un romanzo sulla partizione. Il 1947 è lo sfondo, e nella seconda sezione il primo piano, della storia. Che a “Chiara Luce del Giorno” non sia stato accordato il suo meritato posto come uno dei principali “romanzi della partizione” potrebbe avere qualcosa a che fare con il suo punto di vista laterale: fugaci allusioni e attenzione ai piccoli dettagli che echeggiano e riverberano, invece di schiettezza. Si prenda, per esempio, la questione della scelta del campo di studi universitari di Raja nei mesi precedenti la partizione. Con il suo amore per l’urdu aveva deciso di iscriversi al Jamia Millia per frequentare Studi Islamici, ma suo padre non fu d’accordo, sostenendo che sarebbe stato in pericolo di attacchi da parte sia dei fanatici musulmani che di quelli indù se avesse continuato con quel corso. Qual è, quindi, il campo di studi politicamente neutrale a cui Raja si iscrive negli ultimi giorni del Raj? Letteratura inglese. E’ un momento minimo, menzionato solo una volta en passant, ma l’ironia storica è enorme.
E’ attraverso Raja, il suo amore per l’urdu e l’ossessione per la famiglia Hyder Ali che la storia della partizione è rappresentata con maggior chiarezza. Ma echeggia in altre storie: la discesa di Mira-masi verso l’alcolismo nel ’47 può essere vista come una reazione alla pazzia del mondo esterno e c’è il rifiuto dell’India post-partizione nell’insistenza di Bim di rimanere nella Vecchia Delhi, dove “qualsiasi cosa sia successa, è successa secoli fa, all’epoca dei Tughlaq, dei Khilji, del sultanato, i Moghul, secoli fa”. Questo non è un romanzo di persone che sono costrette a lasciare le loro case a causa della Partizione, o affrontare violenza sempre a causa sua; è un racconto complessivamente più sottile su come la partizione scardini il mondo della Vecchia Delhi.

Ecco l’unica considerazione del romanzo sui campi profughi:
Qui non c’era luce, eccetto per il bagliore fioco dei fornelli da cucina, macchiati dal fumo, dalla polvere e dal crepuscolo. Sciamavano e si muovevano impercettibilmente con una specie di vita sotterranea da storpi che faceva pensare a Bim che la città non si sarebbe più ripresa da questo orrore, che sarebbe cambiata irrimediabilmente, che era già cambiata e non era più la città in cui era nata. *

Non si dice di più dei campi profughi. Per i propositi del romanzo, non ce n’è bisogno. Guardare i campi e vedere che c’era vita lì dentro significava capire e sentire che il mondo era cambiato in maniera brutale. L’orrore si propaga verso l’esterno come una spirale e non esclude nessuno. Detto questo, sarebbe sbagliato pensare a “Chiara Luce del Giorno” come ad un romanzo che lascia spazio alla nostalgia. E’ lamento per quello che è andato perso, non uno sguardo tinto di rosa al passato. Ma non si ferma solamente al lamento, che echeggia e gira eternamente intorno a sé stesso; il vero significato del passato qui è la domanda pressante di come vivere nel presente che è stato costruito con quel passato. La struttura in quattro sezioni del romanzo rispecchia questa domanda: presente, passato, passato più lontano, di nuovo presente. Muoversi all’indietro per capire dove si è ora; entrare nel passato ma poi tornare al presente. Ed è un presente che – avendo guardato indietro e avendone visto il riflesso – finalmente, in un modo bellissimo, incorpora il mondo del guru Mulk, di T.S. Eliot e anche di Iqbal. Niente di falso o forzato a riguardo. Il tempo che distrugge è veramente il tempo che preserva. Naturalmente, niente di tutto ciò funzionerebbe - non il lamento, non gli elementi gotici, non le ironie storiche, non la mescolanza di tradizioni che inizialmente erano separate – se, sia inizialmente che nel finale, i personaggi non funzionassero. E’ un romanzo brulicante di persone: i quattro fratelli nella Casa e i quattro fratelli Misra in quella accanto, i genitori che sono presenze spettrali anche prima di morire, Mira-Masi, gli appena intravisti ma mai dimenticati Hyder Ali, il dottor Biswas e sua madre, il diplomatico Bakul. E’ un’impresa complicata tenere tutti questi personaggi nello specchio del romanzo, con trame diverse che emergono e facendo sentire la loro presenza anche quando non sono visti. Ma al centro di tutti, a volte sincronizzate, a volte andando alla deriva e a volte turbinando via l’una dall’altra, ci sono le due sorelle: Bim e Tara. La moglie del diplomatico che vive distante, l’insegnante zitella che non se ne è mai andata di casa. Sono agli antipodi nel modo in cui solo i fratelli possono essere: la loro opposizione si manifesta nelle risposte diverse agli stessi eventi. Mentre ci muoviamo con loro attraverso gli acuti dettagli delle loro giornate - scuotere i petali di una rosa, leccare un gelato di color rosa acceso, immaginare il gusto della guava acerba, ascoltare un disco che si blocca in un solco, esaminarsi la vita l’un l’altro – passiamo attraverso i confini tra quello che è reale e quello che è immaginato. E’ il dono più grande che uno scrittore di romanzi possa farci.





* Non sono riuscita a trovare il passaggio in italiano nel mio libro, quindi ho tradotto io malamente. Se lo trovo sostituisco la traduzione (n.d.T.).

Monday, June 21, 2010

11. "Gli Enigmi dello Spettro" by Jambhaladatta


Year of first publication: ?
Genre: collection of tales
Country: India

In English: The Five and Twenty Tales of the Genie by Sivadasa and Chandra Rajan

This is one of the most famous collections of Hindu novellas, or so my introduction by Maria Luisa Gnoato says, because I must admit that I’m ignorant on the subject. I came across this book while I was looking for something different (a book by R.K. Narayan about Hindu mythology). The collection in Sanskrit is called Vetalapancavismati which means Twenty five tales of Baital. There are several recensions of the text, which is quite old itself, and mine is the one by Jambhaladatta, who collected the tales sometime before the 16th century.
The legendary King Vikram (probably Vikramditya, who lived in the 1st century BC and established a calendar still popularly used in India) promises a sorcerer that he will capture a vetala (or Baital), a vampire spirit who hangs from a tree and inhabits dead bodies. King Vikram tries to do so, but whenever he catches the spirit, it starts telling a story with a riddle at the end. If the king answers correctly to the riddle, the vetala would run back to his tree. Of course, the king s not able to keep silent and the cycle goes on twenty four times, until at the twenty-fifth story the king is stumped. King Vikram is therefore able to bring the vetala to the sorcerer, but there’s a surprise.
The riddles are of the sort “who was right and who was wrong?” and require a reflection on the dharma moral principles. I must admit that I was stunned by some of the answers to the riddles and I don’t know if this is quite blasphemous but I don’t understand and don’t like this dharma thing one bit. Of course, these tales would require a knowledge of classic Indian literature and Hindu philosophy to give a decent opinion, so I just "threw in" an impression.
According to the introduction to the English recension, this collection of tales within a frame story is “the germ which culminated in the Arabian Nights, and which inspired the Golden Ass of Apuleius, Boccacio's Decameron, the Pentamerone, and all that class of facetious fictitious literature”. As a matter of fact, the introduction to my book says that one of the tales, the tenth, is also found in Boccaccio’s Decameron (it’s about a girl who escapes danger with the help of her incredible sincerity) and another one inspired Goethe, who wrote a ballad called Paria which can loosely be traced back to the eighth tale of this collection.

Thursday, June 17, 2010

10. “Burger’s Daughter” by Nadine Gordimer


Year of first publication: 1979
Genre: novel, political novel
Country: South Africa

I must admit that it’s just a coincidence that I am reviewing a South African book when the Football World Cup is on in the rainbow country, but it’s exciting anyway!
The book is set in the 1970s, when apartheid was still plaguing the country. Rosa Burger is the daughter of famous anti-apartheid activist Lionel Burger. Since she was little she has known how to divert the police or hide important information in apparently frivolous conversations. Nonetheless, she has always been considered simply Lionel Burger’s daughter and was never allowed to have an identity of her own. Now all her family is dead: both her parents died in prison and her little brother drowned long ago. Even Baasie, the black child he called her brother, has vanished. In order to appease the discomfort of her father’s moral inheritance and unable to cope with his memory, she decides to travel overseas. In the south of France she leads a completely different life: people don’t know about her and call her la jeune anglaise. She spends her time bathing in the Mediterranean sea and having dinner with her new European friends. At the first reunion with her old companions, she meets Baasie and makes the mistake of kissing him on both cheeks, like they do in France. The absurdity of this action makes her realize how inappropriate she is in Europe. Baasie reminds her that his real name is Zwelinzima, which means “suffering earth”, and not Baasie, a nickname given to him by white people. His father too died in prison because he was a political activist, but people only remember Lionel Burger, the white activist. Baasie-Zwelinzima is in fact tired of living out of white people’s leftovers. Having realized all of this, Rosa Burger goes back to her home country to accept her legacy. The book is therefore not only about the racial conflict in South Africa, but also about the whole nature of commitment.
This is my fourth book by Nadine Gordimer, after A World of Strangers, July’s People and Beethoven Was One-Sixteenth Black. It is one of her most famous works, and deservedly so. Moreover, it was included in Africa’s 100 best books of the 20th century, a list compiled at the Zimbabwe International Book Fair. It is one of Gordimer’s most political novels: the anti-apartheid activists were communists who came to the idea of abolishing apartheid as a result of their political ideas. Also, Mandela’s ghost floats over the whole book (he was still a prisoner in Robben Island at the time the book came out) and the Soweto Uprising of 1976 is also in there. It is harshly realistic and painful at times: a scene featuring a donkey being flogged by a drunk old black man and an argument in a house in Soweto being the most relevant examples. Burger’s Daughter was initially banned in South Africa and then unbanned because it was finally judged too one-sided to be dangerous. The book is intellectually challenging, with many unmarked quotations from real anti-apartheid activists like Steve Biko or Bram Fischer, but also moving and introspective. What struck me as brilliant is that in the book political activism and everyday life are not separated: several times in the novel political arguments are interrupted by people arriving with food or changing the subject and saying something trivial.
When we watch how South Africa is today we should always remember how it was until not many years ago. Apart from this, Burger’s Daughter is also remarkable for its literary value: the shifts from Rosa’s internal monologue addressed to her semi-lover Conrad to the omniscient narrator and back are proof that Gordimer deserved the Nobel Prize.

Thursday, June 10, 2010

9. “Oggi forse non ammazzo nessuno” di Randa Ghazy



Anno di prima pubblicazione: 2007
Genere: romanzo per adolescenti, chick lit
Paese: Italia

Jasmine ha 23 anni, vive a Milano e frequenta la facoltà di giurisprudenza. E’ inoltre innamorata del ragazzo che fa il commesso nel negozio di fronte a casa sua, anche se non gli ha mai parlato. E fin qui sembrerebbe tutto materiale per un comune libro per ragazze, se non fosse che Jasmine è di origine egiziana. Non porta il velo e non è una terrorista, ma convive con una religione che la costringe a dare sempre giustificazioni e spiegazioni. Per di più la sua migliore amica Amira l’ha - per così dire - tradita e si è sposata con un ragazzo che Jasmine non sopporta ed è diventata la perfetta moglie sottomessa che tutti si aspettano da una ragazza musulmana. Insomma, Oggi Forse non Ammazzo Nessuno, il cui sottotitolo sapientemente recita “Storie minime di una giovane musulmana stranamente non terrorista”, è abbastanza unico nello stagnante panorama editoriale italiano. Quello che in Inghilterra appariva forse come una novità vent’anni fa (il Budda delle Periferie di Kureishi è del 1990), in Italia inizia ad arrivare timidamente solo adesso (e non riceve neanche l’attenzione dovuta, aggiungerei io). Tutt’altra storia in Francia, dove il romanzo Trois Femmes Puissantes (Tre Donne Forti) della franco-senegalese Marie Ndiaye ha vinto il Premio Goncourt, trovando perciò spazio nei canali della letteratura senz’altre etichette. In Italia infatti siamo ancora fermi alle etichette “letteratura della migrazione” o “letteratura etnica”, e non perché non stiamo sfornando bravi scrittori.

Sull’autrice: Randa Ghazy è nata a Milano da genitori egiziani. Nel 2002, quando aveva 15 anni, è uscito il suo primo romanzo, Sognando Palestina, che è stato tradotto in 15 paesi. Il suo secondo romanzo, Prova a Sanguinare, è uscito nel 2005. Studia relazioni internazionali e spera di diventare giornalista, di imparare una ventina di lingue straniere, di viaggiare, di continuare a scrivere romanzi.

Monday, June 7, 2010

8. "La Rivincita di Capablanca" di Fabio Stassi



Anno di prima pubblicazione: 2008
Genere: romanzo
Paese: l'autore è italiano, ma il romanzo è ambientato in vari paesi del mondo tra cui Cuba, Portogallo, Argentina e Stati Uniti.

La recensione di questo libro è uscita per la rivista culturale Paper Street ed è disponibile a questo link.

Sunday, June 6, 2010

7. “Un indovino mi disse” by Tiziano Terzani



Anno di prima pubblicazione: 1995
Genere: reportage di viaggio
Paese: il reporter è italiano, ma i reportage riguardano Laos, Birmania, Tailandia, Malesia, Singapore, Indonesia, Cambogia, Vietnam, Cina, Mongolia e Russia.

In English: “A Fortune-Teller Told Me: Earthbound Travels in the Far East” by Tiziano Terzani

Nel 1976 Tiziano Terzani si trovava ad Hong Kong, dove un indovino gli disse che nel 1993 avrebbe corso un grosso pericolo e non doveva assolutamente volare. Gli anni passarono in fretta e quando arrivò il fatidico 1993 Terzani decise di continuare il suo lavoro di reporter viaggiando per l’Asia usando tutti i mezzi di trasporto tranne l’aereo. In ogni paese che visita cerca un indovino, in una specie di rito scaramantico a cui per altro non crede per niente. Qualche mese dopo precipita un elicottero delle Nazioni Unite pieno di giornalisti diretti in Cambogia, elicottero che se non avesse ascoltato la profezia dell’indovino di Hong Kong avrebbe preso di certo. Coincidenza o preveggenza? Inizia così un viaggio per tutta l’Asia interrogandosi sul paranormale, sull’arte della divinazione e su quella commistione tra pragmaticità e soprannaturale che caratterizza gran parte delle società asiatiche. E’ un libro da leggere mentre si scorre con il dito il percorso intrapreso, con l’atlante aperto alla pagina Asia. Mentre si legge il libro una domanda sorge spontanea: la magia in Asia è cialtroneria oppure quel che rimane di un’antica sapienza orientale che sta venendo via via soppiantata dalla scienza empirica occidentale?
Scrivendo con il piglio di Kapuscinski, a cui recentemente è stato attribuito anche un pregio narrativo oltre che giornalistico, Terzani ci accompagna attraverso molti paesi asiatici. Parte dal Laos, interrogandosi sul significato di “modernità”, in altre parole se questa possa arrivare solo come l’intendiamo noi occidentali. Il fiume Mekong, infatti, divide il Laos dalla modernissima Tailandia ma non c’è, almeno quando lo visita Terzani, un fiume che colleghi il paese, senza sbocco sul mare, con la Tailandia e quindi con il porto di Bangkok. I fiumi di turismo che hanno rovinato ed occidentalizzato la Tailandia, non arrivano a scalfire paesi “chiusi” all’occidente come il Laos e la Birmania. Ed è proprio in Birmania che Terzani si introduce di soppiatto (è interdetto dal paese perché considerato un giornalista scomodo), raccontandoci delle varie etnie e dei loro conflitti, dei regnanti che dominavano la Birmania prima dell’arrivo degli inglesi e della scaramanzia dei governanti di oggi, in particolare di Ne Win, che per scongiurare le predizioni di un indovino cercava sempre degli stratagemmi per non farle avverare. Dalla Tailandia “corrotta” dal turismo alla Malesia che ha fatto dell’Islam una bandiera in contrapposizione all’immigrazione cinese degli ultimi cent’anni, Terzani incontra uno o una veggente in ogni paese, facendosi ammaliare da alcuni di loro ed etichettando altri come cialtroni. Incontra quegli stessi cinesi della diaspora anche in Malesia e nell’iper-moderna Singapore o in Indonesia. Quello che li accomuna è il desiderio di arricchirsi e un sentimento d’identità legato alla madrepatria ancora molto forte.
L’Asia è un continente di contrasti e dopo il materialismo e lo sfarzo di Singapore Terzani raggiunge paesi messi in ginocchio dalle guerre, come la Cambogia che i Khmer rossi hanno praticamente ridotto ad un ossario o il Vietnam dove, aprendo il finestrino per fotografare la regione natale di Ho Chi Min, Terzani riceve in regalo un getto di fango e di sterco dagli abitanti del luogo, delusi dalla rivoluzione. Poi prende un treno che lentamente lo riporterà in Europa, attraversando, tra gli altri paesi, la Mongolia, paese un tempo satellite dell’Unione Sovietica. La modernità ha reso i mongoli, discendenti di Gengis Khan, pallidi fantasmi di sé stessi. Sono infatti ridotti a fare sì lo stesso percorso dei loro antenati conquistatori, ma solo per vendere merce a buon mercato. D’altronde l’Asia, secondo l’autore, è un continente dalla “bramosia autodistruttrice”, dove il desiderio di modernizzarsi e arricchirsi porta inevitabilmente alla perdita di quelle conoscenze che avevano reso l’Asia magica ai nostri occhi occidentali.