Friday, January 22, 2010

Italia e Corno d’Africa: “Madre Piccola” di Cristina Ali Farah

Ubax Cristina Ali Farah è nata a Verona nel 1973 da padre somalo e madre italiana. Le piace dire che è suo padre l'africano, mentre sua madre è italiana, ribaltando la consuetudine che vuole siano le spesso bellissime donne africane a sposare gli uomini bianchi, e non viceversa. Cristina è vissuta a Mogadiscio dal 1976 al 1991, quando è stata costretta a fuggire a causa della guerra civile scoppiata nel paese. Ora vive a Roma, dove organizza eventi letterari e si occupa di educazione interculturale, con percorsi rivolti a studenti, insegnanti e donne migranti. E’ anche co-fondatrice della rivista di letteratura della migrazione El-Ghibli. Poetessa ed autrice di diversi racconti, nel 2007 è uscito il suo primo romanzo, Madre Piccola.

Barni e Domenica Axad sono due cugine, cresciute insieme a Mogadisco e legate da un filo sottile ma resistentissimo. Vengono separate contro il loro volere quando Domenica parte, insieme alla madre, alla volta di un paese a lei sconosciuto, ma che in realtà è quello della madre: l’Italia. Quando le due cugine finalmente si rincontrano a Roma dopo molti anni, la Somalia è ormai “persa” perché in preda alla guerra civile, ma ancora viva nei loro ricordi di bambine. Barni decide di essere la habaryar, la madre piccola, del figlio che Domenica porta in grembo. “Madre piccola” è infatti il modo in cui i somali si riferiscono alla zia materna.

Attraverso questo libro Cristina Ali Farah ci parla della Somalia dove la colonizzazione italiana ha lasciato tracce evidenti e anche ferite non meno profonde, ha stretto forti legami tra Mogadiscio e Roma, legami che però ora che la Somalia è in preda alla guerra civile l’Italia sembra aver dimenticato. In Italia non si ricorda mai questa brutta parte della nostra storia nazionale, quando ci siamo macchiati di crimini di cui spesso accusiamo le altre nazioni – Inghilterra, Francia o Spagna. Questa parte della nostra storia non si studia a scuola e i giornalisti non ne parlano spesso. Cristina Ali Farah parla dei somali della diaspora, sparsi nelle città di mezzo mondo, ma anche dei “meticci” italo-somali, poco accetti in entrambe le culture. Quegli stessi discorsi che sembrano banali se riferiti ad uno scrittore algerino di lingua francese o ad uno scrittore guyanese di lingua inglese, non sono banali per la poco conosciuta “letteratura postcoloniale italiana”, definizione alquanto dubbia quanto quella di “letteratura italofona”. Cristina, cresciuta a Mogadiscio, ha studiato in una scuola italiana su libri italiani, è di madrelingua italiana e quando le si domanda se si sente italiana (domanda che le è stata posta da un anziano signore alla presentazione del libro a cui sono andata lo scorso anno), rimane un po’ sorpresa. E come potrebbe non sentirsi italiana? Eppure si sente anche somala ed è una cosa che si percepisce molto nel libro, impreziosito da espressioni e parole somale. Non sono due cose che non possono convivere, l’essere italiani e l’essere somali, giacchè l’autrice, così come la Domenica Axad del libro, lo fa nei suoi due nomi di battesimo, Ubax, un nome somalo, e Cristina, un nome italiano.

Di questo primo libro di Cristina mi ha colpito molto il modo di scrivere, la sintassi proprio, rotta, discontinua, discorsiva, bellissima. Non so come spiegarvelo, ma l’ho interpretato un po’ come un modo per dimostrare a quel signore che le ha posto quella domanda che sì, lei è proprio di madrelingua italiana, che usa l’italiano con tutte le sue sfaccettature e le sue complessità. Non posso far altro che riportarvi un piccolo assaggio del libro:

" Soomaali baan ahay*, come la mia metà che è intera. Sono il filo sottile, così sottile che si infila e si tende, prolungandosi. Così sottile che non si spezza. E il groviglio di fili si allarga e mostra, chiari e ben stretti, i nodi, pur distanti l'uno dall'altro, che non si sciolgono.
Sono una traccia in quel groviglio e il mio principio appartiene a quello multiplo.
Il mio principio è Barni mentre mangiamo insieme dal piatto comune. Siamo sedute per terra l'una accanto all'altra e i maschi ridono per come tengo le gambe. Sulla stuoia le ginocchia si toccano, una gamba di qua e una gamba di là. Non ti si spezzano dalbooley*? Vedessi quando corre quanto fa ridere, i polpacci che vanno a destra e a sinistra.
Barni, persino i maschi hanno paura di lei. Si alza e li prende per il collo, graffia, dovresti vedere come graffia. Nessuno si azzardi a scherzare. Il piatto quasi pieno si rovescia ed eccola, la mia Barni con la sua voglia a cuore proprio in mezzo alla fronte, che corre a protestare, mai un giorno che si possa mangiare senza dover fare a botte con questi prepotenti. Ve lo faccio vedere io chi è più forte. Io ci ho provato una volta, volevo essere come lei, ma di Barni ce n'è una sola.
Il mio principio è noi due che ci infiliamo in cucina, vediamo la papaia tutta aperta con i suoi semini tondi tondi ed ecco, un po’ a te e un po’ a me, poi corriamo in cortile e facciamo una buca profonda nella sabbia rossa, domani torniamo e magari, chissà, è spuntato qualcosa. Barni che mi dice coraggio, quel giorno che hanno messo la trappola per il gatto, quello che rubava sempre la carne dal cesto della spesa, e ora che l’hanno beccato le danno tante di quelle bastonate che non riesco neanche a guardare. L’hanno buttato per strada, ma quello è tornato, ora non ruba più la carne, ha un occhio raggrinzito. Forse è tornato per ricordare che il nostro profeta Maometto amava i gatti, dicono che una volta un gatto gli si è addormentato sul braccio e il profeta, per non svegliarlo, ha deciso di tagliarsi la manica.
Il mio principio è Barni quando tocca a me raccontare le storie, mi chiede quelle dei libri che leggo e traduce le parole che non so, come quella volta che volevo dire la storia della sirenetta e io raccontavo, una donna metà pesce e metà donna, come si dice, gabareymaanyo dice Barni, ecco come di dice. Vorrei anch’io essere una gabareymaanyo, ma non so nuotare, al mare volevo raggiungerla nell’acqua, ma c’era una buca, meno male che Barni è più alta di me, è venuta subito a tirarmi fuori, mamma mia che paura, ho ancora il sapore dell’acqua salata.
Il mio principio sembra spezzarsi quel giorno, mentre Barni mi sta pettinando i capelli per la partenza, così tua nonna vedrà come sei diventata bella!, spalma l’olio e separa le ciocche e io dico, Barni non vedo niente, mi sembra come una nuvola nera davanti agli occhi. Poi mi manca il respiro e sento solo l’acqua fredda che mi scende dalla fronte al petto, ha perso conoscenza, dicono. Domenica, domenica! e mentre mi chiamano io ricomincio a vedere gli occhi di Barni che mi fissano così vicini. Allora io le dico, abbaayo* io non voglio più chiamarmi con questo nome che fa ridere tutti e lei dice, non ti preoccupare d’ora in avanti ti chiamerai Axad, come il principio.”


* Soomaali baan ahay: “Somalo io sono”, poesia composta nel 1977 da Cabdulqaadir Xirsi Siyaad “Yamyam”
Dalbooley: persona dalle gambe valghe
Abbaayo: sorella (anche in senso affettivo)



La prossima volta, Gabriella Ghermandi e il suo libro Regina di Fiori e di Perle

2 comments:

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