Tuesday, September 27, 2011

"The Finkler Question" by Howard Jacobson


Three men, Libor Sevcik, Sam Finkler and Julian Treslove, are the main characters in this novel, and all of them are widowers. Well, apart from Treslove, who never had a wife but grieves the lack of one altogether. Libor, a ninety-year-old Czech-born retired professor with Hollywood connections, is mourning his beloved wife Malkie, while Julian Treslove is envious of his long-time friend Sam Finkler for several reasons, one of them being that he is Jewish (and therefore, according to him, he is more intelligent, has the best women and tells the best jokes).

"The Finkler Question" is a brilliant book, very humorous and entertaining, but also thought-provoking and ultimately sad. As a matter of fact, Ron Charles of “The Washington Post” used adjectives like 'ruminative' and 'broody' to describe it. How can a book be both funny and gloomy? Well, I think this is one of the wonders of Jacobson's writing. “The Finkler Question” tackles topics like mourning one's family and, of course, identity. The whole book can be read as a compendium (albeit a crooked one) on Jewishness in England. I remember that a few months ago I read an article complaining about this. Incidentally, I think the author of the article has not grasped the real meaning of the book, to the point of wondering if he has finished the novel. “The Finkler Question” - which in fact reads as “The Jewish Question” (Finklers is in fact the way Julian Treslove calls Jewish people in general) – reflects on how Jewish people are perceived by non-Jewish people. It elaborates on stereotypes and anti-Semitism in a way that is never obvious. Until here, we all agree. What the author of that article failed to see, in my opinion, is that it is slowly revealed by the end of the book that it is Treslove's excessive love and respect for 'Finklers' that hides something disturbing and disquieting. I think that this can be read as a lesson, not only for those who hide their prejudice behind excessive admiration, but for everyone. In other words, Jacobson's book is a lecture on what it means to be human: to grieve, to love and to hate. We perceive Jewishness through the lenses of Julian Treslove, who for as much as he would hate to hear it, has a lot of preconceptions.  

The book vaguely reminds me of Zadie Smith's “The Autograph Man”, but it's not only because of the Jewish connection. They're both humorous books and they are both sprinkled with references to movie stars such as Greta Garbo and Marlene Dietrich. “The Finkler Question” is nonetheless 'obsessed' with Jewishness as much as its protagonist is. Towards the end of the book it was annoying to read the word 'Jew' in every page, as it must have been annoying for Finkler's friends to hear Treslove babbling about Jewishness all the time.

Howard Jacobson got hold of the Booker Prize with this book. His style is precise and his novel is pleasant to read, while his puns and remarks are often witty and never weak ('D'Jew know Jewno' already feels like a classic). In spite of this, there was something missing: maybe more narrative complexity, if that is something desirable in a book. Too often the plot was put aside for endless disquisitions on Zionism that end up being tedious and abstruse, unless you are an expert on the subject. I appreciated the language in which the novel was written, though: the impeccable choice of words and the genius behind some of the musings and reflections. There is a passage about philosophy that I must report here because it feels so true for me (but if you don't care for such curiosities consider the review finished without this): 
Every few years Treslove decided it was time he tried philosophy again. Rather than start at the beginning with Socrates or jump straight into epistemology, he would go out and buy what promised to be a clear introduction to the subject - by someone like Roger Scruton or Bryan Magee, though not, for obvious reasons, by Sam Finkler. These attempts at self-education always worked well at first. The subject wasn't after all difficult. He could follow it easily. But then, at more or less the same moment, he would encounter a concept or a line of reasoning he couldn't follow no matter how many hours he spent trying to decipher it. A phrase such as 'the idea derived from evolution that ontogenesis recapitulates phylogenesis' for example, not impossibly intricate in itself but somehow resistant to effort, as though it triggered something obdurate and even delinquent in his mind. Or hte promise to look at an argument from three points of view, each of which had five salient features, the first of which had four distinguishable aspects. It was like discovering that a supposedly sane person with whom one had been enjoying a pefeclty normal conversation was in fact quite mad. Or, if not mad, sadistic. (p. 32-33)

Tuesday, September 20, 2011

Festivaletteratura 2011 (3/3)

Uzodinma Iweala. Questo nome difficile da pronunciare appartiene ad un giovane scrittore di origine nigeriana cresciuto negli Stati Uniti. Proveniente da una famiglia molto privilegiata (sua madre è Ministro delle Finanze), Iweala si è laureato in letteratura inglese ed americana ad Harvard, ma come se non bastasse ha anche una laurea in medicina. Incluso tra i 20 migliori giovani scrittori americani da Granta Magazine (una lista simile a quella del sondaggio che vi propongo), Iweala è l'autore di "Bestie Senza una Patria", che racconta la storia di un bambino-soldato. Dialoga con lui Gianni Biondillo, scrittore e giornalista italiano che ha fatto alcune esperienze in Africa. L'incontro ha puntato molto sul fatto che il pubblico in sala non conosce molto dell'Africa, o meglio conosce solo quello che mostra la televisione: fame, povertà, malattie e guerra. Iweala ha insistito molto sulle generalizzazioni che vengono fatte riguardo all'Africa, nonostante tra il pubblico ci fossero una professoressa di storia africana e persone che per lavoro hanno a che fare tutti i giorni con africani provenienti dalle regioni più disparate. L'autore, nonostante abbia scritto un romanzo su una tematica così drammatica e sia in procinto di pubblicarne un altro che parla dell'AIDS nel continente africano, sostiene che noi non conosciamo  l'Africa e non ci rendiamo conto che la gente vive vite perfettamente normali anche lì. Forse è vero, però io sto dalla parte dell'intervento polemico (e poco apprezzato) che c'è stato alla fine dell'incontro: perché si è parlato poco, o quasi niente, di letteratura? Perché gli scrittori africani (o indiani, cinesi etc.) devono rispondere a domande sull'economia odierna della Nigeria e l'influenza degli investimenti cinesi sullo sviluppo del paese, quando dovrebbero spiegarci perché la letteratura è importante per avere una visione più amplia e particolareggiata del continente? Io credo che una pluralità di storie (usando l'espressione di Chimamanda Ngozi Adichie, un'altra nigeriana che ammiro), si possa raggiungere anche, anzi soprattutto, attraverso la letteratura. Ed infatti questa conclusione arriva, un po' inaspettata ma sicuramente salvifica, da Gianni Biondillo che, per ribadirci come non ci sia una sola Africa, ironizza anche sul fatto che in questo caso è lui, figlio di "terroni" semi-analfabeti che per poco non andava neanche all'università, ad essere il vero svantaggiato dei due. 

Laila Wadia e Enrico Franceschini. Entrambi scrivono di incontri e scontri tra culture, uno esaltando la multietnicità e l'apertura di una città come Londra, e l'altra ironizzando sui vizi e le stranezze del popolo italiano. Laila Wadia è nata a Bombay, in India, ma vive da tantissimi anni in Italia. Il suo "Come Diventare Italiani in 24 ore" è l'avventura tragicomica di una ragazza indiana che viene a studiare in Italia grazie ad una borsa di studio, e finisce poi per non lasciare più il Bel Paese, nel bene o nel male. Si legge in due ore, fa ridere e lascia un dubbio: quanto autobiografica è questa storia? Ma Laila Wadia ammira per davvero Aida Yespica per aver avuto successo nonostante abbia origini non proprio italiche? 
Enrico Franceschini, invece, è un blogger: scorrendo l'homepage di Repubblica vi è può esser capitato di vedere la thumbnail di un blogger dall'espressione ironico-rassegnata che racconta che cosa succede nella capitale britannica. Innamorato pazzo di Londra, Franceschini ci spiega come fare a distinguere un italiano che gira con la famiglia per South Kensington, ci illumina sul perché Londra sia impazzita per la cucina etnica (un tentativo di recuperare il tempo gastronomicamente perso, secondo lui) e ci regala un resoconto della sua serata a Buckingham Palace, tra gaffe dettate dall'ansia e conversazioni piacevoli con il principe Carlo. 

Salvatore Scibona. Anche lui, come Téa Obreht, è stato incluso tra i '20 under 40' del New Yorker (sembra che gli organizzatori del festival abbiano invitato a tappeto gli scrittori giovani più apprezzati dai giornali letterari americani). Come si deduce facilmente dal nome, Salvatore Scibona è uno scrittore di origine italiana. Tuttavia è nato e cresciuto negli Stati Uniti ed ha imparato l'italiano solo da adulto. Il suo acclamato romanzo "La Fine" è ambientato nella comunità italoamericana di Cleveland, in Ohio, dove è cresciuto. Ogni personaggio sembra indirizzato verso una meta, la "fine" del libro, appunto. Eppure quasi non c'è trama in questo libro, che dagli anni '50 va a ritroso fino al 1915, girando sempre intorno alla festa dell'Assunta, molto importante all'interno della comunità italoamericana. Si tratta di un mondo dimenticato e a noi sconosciuto, eppure appartiene al nostro passato e a quello di tutti gli emigranti che dai paeselli più sperduti sono andati a fare fortuna in America. Lo stesso Scibona racconta di come abbia dovuto riscoprire le proprie radici e come sia un caso che si chiami Salvatore (suo padre, infatti, si chiama Kenneth). "Con un nome così", afferma lo scrittore, "mi sono sentito quasi in dovere di indagare sulle mie origini, mentre per quanto riguarda la storia della famiglia di mia madre, di origine polacca, non è stato lo stesso, anche perché non c'erano più legami con il suo paese d'origine. Non conosco più nessuno in Polonia, mentre in Sicilia ho ancora dei parenti, che sto per andare a visitare".

Geraldine Brooks. Australiana d'origine ed americana d'adozione, Geraldine Brooks scrive romanzi storici dalle trame molto affascinanti. Che non si tratti di libri strampalati davanti ai quali gli storici si fanno solo grasse risate è chiaro dal fatto che nel 2006 l'autrice ha vinto il Premio Pulitzer per il suo romanzo "L'idealista", che racconta le peripezie del signor March, il padre delle sorelle di "Piccole Donne" che all'inizio del romanzo lascia le figlie per tornare solo alla fine del libro. "L'idealista", ispirandosi alla vita del vero padre dell'autrice del celebre classico per l'infanzia, racconta come il signor March, fervente abolizionista, avesse partecipato alla guerra di Secessione americana nel periodo in cui era lontano da casa. Un altro suo romanzo di Geraldine Brooks dalla trama affascinante è "I custodi del Libro", che racconta come un importante ed antico libro ebraico sia stato nascosto in una moschea di Sarajevo per metterlo al riparo dalla guerra imminente. L'autrice ha raccontato come compie le sue ricerche, parlando con testimoni diretti o con i loro discendenti, e come il germe che dà la vita ad un libro nasca da un interesse personale. Nel caso de "L'isola dei due mondi", per esempio, ambientato a Martha's Vineyard (prestigioso luogo di villeggiatura, ma anche uno dei pochi luoghi negli Stati Uniti dove i nativi americani non sono mai stati scacciati), l'interesse è nato quando lei stessa si è recata sull'isola per acquistare una proprietà. Durante il suo soggiorno a Mantova, per esempio, ha visitato il Palazzo Ducale ed è rimasta affascinata dalla presenza di una nana, vestita in maniera molto elegante, in uno degli affreschi delle stanze del palazzo. E' il genere di cose, spiega, che fanno scattare la sua voglia di ricerca, per poi creare una storia nata da un fatto curioso o interessante. Non deve tuttavia, essere, un fatto troppo inverosimile. L'intervistatrice, infatti, ci racconta come una volta Geraldine Brooks abbia dovuto scartare una storia troppo variopinta, che aveva per protagonisti una coppia che si salvò da un'epidemia di peste chiudendosi in una chiesa ed isolandosi dal resto della comunità.   

Wednesday, September 14, 2011

Festivaletteratura 2011 (2/3)

'Ala al-Aswani. Si tratta semplicemente dello scrittore egiziano più conosciuto nel paese e nel mondo, autore di "Palazzo Yacoubian", il romanzo più venduto nel mondo arabo. L'incontro, tuttavia, è incentrato sulla primavera araba e sul clima che si provava a stare in piazza Tahrir al Cairo in quelle fatidiche settimane. Quest'argomento è stato infatti un cavallo di battaglia del festival (uno degli incontri serali di Blurendevù, per esempio, è stato con un blogger egiziano che ha sottolineato quanto ancora ci sia da fare affinché la democrazia in Egitto fiorisca). 'Ala al-Aswani dalle proteste di piazza Tahrir ci ha anche ricavato un libro, intitolato semplicemente "La Rivoluzione Egiziana", che raccoglie i suoi scritti per i giornali indipendenti. Rimane però un po' di spazio per rievocare i personaggi dei suoi personaggi più amati, considerando che se fossero stati persone reali sarebbero tutti a combattere per la democrazia egiziana. E' finito infatti il tempo della rassegnazione e della sottomissione. Tutti quanti, afferma al-Aswani, erano fuori in piazza: musulmani e cristiani, uomini e donne, vecchi e giovani.

Angelica Garnett. In un teatro Ariston stracolmo, la novantaduenne nipote di Virginia Woolf (figlia della pittrice Vanessa Bell) causa non poca curiosità, se non altro per vedere con i propri occhi una parente della grande scrittrice di "Gita al Faro" e farsi raccontare che tipo di zia era. Due curatrici dell'opera di Virginia Woolf leggono interminabili saggi, forse più adatti ad un'aula universitaria che a un festival della letteratura. Non mancano tuttavia suggestioni, nelle loro letture ricche di pathos, tra le quali un riferimento alle farfalle e alle falene (lei, come Nabokov, cacciava farfalle e già  questo mi emoziona, nonostante la pena che provo per questi animaletti pinned to the wall). Angelica Garnett non è solo la nipote di una persona famosa, ma anche l'autrice di un libro di memorie sulla sua infanzia privilegiata, vissuta tra le più argute menti del tempo, nonché di un romanzo che è anch'esso una rielaborazione di ricordi d'infanzia. Andando a leggere la sua biografia si scopre quanto fortunata, ma anche triste dev'essere stata da bambina: con un padre inconsistente, per sua stessa ammissione, e una madre opprimente e travolgente, che aveva dato vita con il marito ad una girandola di relazioni aperte e bisessuali da far paura (Angelica è figlia dell'amante di Vanessa, che era approvato dal marito di questa, ed ha sposato a sua volta David Garnett, l'amante bisessuale del padre che l'aveva vista nascere!). La Garnett, purtroppo, è dura d'orecchi e le domande le arrivano con difficoltà. Sembra non saper cosa dire, limitandosi a ribadire che sua zia era molto affettuosa e gentile con lei. Forse gli anni si sentono e lo spaesamento anche. Nonostante ciò, Angelica pesca tra ricordi vecchi di ottant'anni per svelarci che Virginia non era una donna triste e melanconica e il suo suicidio, così tragico, non deve trarci in inganno. Nessuno, e questo stupisce tutti in sala, pensava che fosse una scrittrice di quel calibro, tranne forse il marito Leonard. Per loro era semplicemente zia Virginia.

Hisham Matar. Quando arrivo in sala, leggermente in ritardo, sento la presentatrice dire che Hisham Matar è praticamente l'unico scrittore libico che arriva nelle nostre librerie. A causa della censura e del regime di terrore instaurato da Muammar Gheddafi, infatti, è già una fortuna che qualche scrittore proveniente da quella terra sia di fatto sopravvissuto. Costretto con la sua famiglia a vivere spesso in esilio, Hisham Matar scrive tuttavia in inglese, contribuendo ad ingrossare le fila di chi scrive del proprio paese d'origine da un punto di vista esterno. Apprezzato anche da un mostro sacro come J.M Coetzee, Matar sta vincendo una sfilza di premi con i suoi libri ambientati nel Medio Oriente brutalizzato dalle dittature. Durante l'incontro non può mancare il riconoscimento del passato tragico delle relazioni Italia-Libia e il ricordo del padre dell'autore, rapito parecchi anni fa in Egitto e di cui si sono perse le tracce. L'ultimo romanzo di Hisham Matar, "Anatomia di una Scomparsa", elabora infatti i sentimenti di rabbia e vuoto provati di fronte al rapimento di un padre.

Howard Jacobson. Forse l'incontro più interessante a cui ho assistito, anche perché ho appena finito l'ultimo romanzo dell'autore. Howard Jacobson viene spesso annoverato tra gli scrittori inglesi più interessanti in circolazione, ma allo stesso tempo viene etichettato non di rado come il Philip Roth inglese (entrambi scrivono quasi sempre di sesso e di ebraismo). Howard Jacobosn quest'anno ha vinto persino il Booker Prize, il premio più prestigioso per uno scrittore di madrelingua inglese, insieme al Pulitzer. Tutto ciò nonostante si fosse sempre detto che un libro sull'identità ebraica non ce l'avrebbe mai fatta. Secondo Jacobson, il motivo per cui "L'enigma di Finkler" ha invece avuto così tanto successo è insito nel protagonista, Julian Treslove, che non è ebreo ma vorrebbe esserlo e quindi, un po' come Virgilio nella Divina Commedia, ci accompagna in un viaggio attraverso la scoperta dell'identità ebraica in Inghilterra. L'incontro diventa poi quasi una lezione, di quelle chiarificatrici, sull'umorismo ebraico: "gli ebrei raccontano le barzellette migliori", sostiene l'autore, "perché sanno che il mondo è divertente perché in realtà non lo è". Quando gli viene chiesto perché scriva sempre sull'identità ebraica, Jacobson diventa improvvisamente enigmatico e sbotta: "Ebbene sì, mi sveglio alla mattina e penso, 'sì, sono ebreo'". Non ho capito se parlava sul serio o se era l'ennesima battuta, ma in fondo, "L'Enigma di Finkler" è tutto giocato sul capire e non capire queste filosofie dell'identità. Di momenti esilaranti durante l'incontro ce ne sono stati a bizzeffe, ma quello sul momento in cui ha vinto il Booker Prize è quello che ha fatto letteralmente sganasciare il pubblico dalle risate. L'autore ha infatti ricordato come il giorno in cui ha vinto il premio è stato anche quello in cui i minatori cileni sono usciti e... Ah, ma io non la racconto bene, e quindi ci rinuncio già dall'inizio!       

Monday, September 12, 2011

Festivaletteratura 2011 (1/3)

Al Festivaletteratura di Mantova gli scrittori invitati erano un centinaio almeno e c'è sempre qualcuno che muori dalla voglia di sentire/vedere, ma che non riesci ad incastrare, nemmeno tagliando sulle pause caffé offerte da Illy o rinunciando ad una passeggiatina sul lungolago. Per me quest'anno questi scrittori sono stati rispettivamente Yehoshua Kenaz (scrittore israeliano sopraffino che ha influenzato anche Amos Oz) e Tahar Lamri (italiano, ma di origine algerina, che ha parlato della primavera araba). Ma ho avuto l'occasione di andare agli incontri con moltissimi altri scrittori; magari non nomi eclatanti, ma comunque sempre interessanti. Di quasi tutti gli scrittori non ho ancora letto niente, quindi ho preso questi incontri un po' come una presentazione ad ognuno di loro. 

Mihai Mircea Butcovan. Questo è stato il mio primo incontro, sotto il sole cocente della Tenda Sordello e a due passi da Palazzo Ducale, un tempo residenza dei Gonzaga. Butcovan, romeno di nascita ma italiano d'adozione, sceglie di parlare dello scarto tra padri immigrati, che si sentono ancora stranieri in Italia, e figli che sarebbero contentissimi di diventare italiani per la legge, visto che lo sono già culturalmente.Il momento più divertente di questa mezz'oretta passata allegramente è stato la lettura della lettera in dialetto di un milanese un po' particolare, indirizzata a quel leghista che aveva proposto di mettere dei vagoni separati per gli extracomunitari nella metropolitana di Milano. Un grosso applauso nasce spontaneamente quando viene detto che chi è nato in Italia dovrebbe avere la cittadinanza italiana. [Mi sembra di essere negli anni '50 disse tempo fa Zadie Smith, a proposito delle politiche razziali in Italia]   

William Dalrymple. Figlio di un baronetto cugino di Virginia Woolf, William Dalrymple è uno storico ed uno scrittore di viaggi piuttosto famoso, nonché il co-fondatore del Jaipur Literature Festival, il cugino indiano del Festivaletteratura di Mantova. Questo incontro, condotto dal giornalista inglese Tim Parks, verte sull'ultimo libro dell'autore, intitolato "Nove Vite". Tra monache jain che si strappano i capelli e fanno voto di non dormire mai sotto lo stesso tetto, vagabondando per tutta l'India, e santoni che digiunano seduti sotto un albero fondendosi armoniosamente con la vita quotidiana degli indiani che si sono ormai abituati, l'India, sostiene William Dalrymple, è un paese dove la spiritualità e la religione non è mai passata in secondo piano. Le innovazioni tecnologiche e il progresso, secondo l'autore, convivono con l'intimità provata dagli indiani con il divino. La grande diversità religiosa fa sì che sia pressoché impossibile conoscere tutti i culti presenti in India, che più che un paese dev'essere considerato un vero e proprio continente, ci ricorda lo scrittore.

Helen Humphreys. Autrice sia di poesia che di una manciata di romanzi, il festival ha scelto di incontrare Helen Humphreys al conservatorio Campiani, con i violoncelli che suonano in sottofondo. Timida e quasi imbarazzata per l'attenzione che le viene riservata, Helen Humphreys sembra non aver parole per descrivere il processo della scrittura, il perché e il percome dei temi dei suoi romanzi, le cui trame intricate ed intelligenti attirano l'attenzione. "Il Giardino Perduto", per esempio, è ambientato a Londra durante la Seconda Guerra Mondiale, dove le vite di tre persone si incrociano in una casa dove c'è un giardino segreto che non appare nelle planimetrie,  un po' come nel famoso romanzo di Frances Hodgson Burnett. Ancora più intrigante è "The Reinvention of Love", romanzo storico che narra la storia d'amore tra Adèle, la moglie di Victor Hugo a cui è dedicato anche il film "Adele H." di François Truffaut, e il critico Sainte-Beuve. Descritti da tutti come romanzi a dir poco poetici, dove la natura gioca un ruolo importante, mi sembrano degni di attenzione.    

Téa Obreht. In Inghilterra il suo libro, "L'Amante della Tigre", era in vetrina ovunque, un po' perché ha vinto l'Orange Prize for Fiction e, a 25 anni, ne è la più giovane recipient, e un po' perché è stata inserita dal New Yorker nei "20 under 40" (cioè i migliori giovani scrittori americani sotto i 40 anni). La intervista Serena Dandini, che si comporta un po' come fosse sul suo divano rosso, battute comprese. Téa avrà pensato: ma chi è questa matta?! E viceversa, perché Téa Obreht sembra un po' stramba, con la sua paura di mangiare raw chicken, il pollo crudo, e con le sue cacce ai vampiri (un contributo della scrittrice ad Harper's Magazine, che l'ha mandata per i villaggi serbi e croati a capire cosa c'è sotto questa moda di succhiare sangue che ha coinvolto letteratura, cinema e tv americana per ragazzi). Di origine serba, Téa Obreht ha scritto un romanzo molto vicino al realismo magico di Garcia Marquez, trapiantandolo tuttavia nei balcani, e di conseguenza dando vita ad un circo di stranezze da far invidia a Kusturica. Se leggendone un paio di pagine in libreria non mi aveva particolarmente incantato, pare che abbia invece fatto sognare molti spettatori in sala. Che tenerezza pensare che questo era il suo primo incontro in traduzione! L'impressione è di una scrittrice di talento, con tanta tanta fantasia (che sia cresciuta a pane e Gabo ça va sans dire), che però esce da un corso di scrittura creativa, questo mondo misterioso che sta facendo uscire dalle università americane ed inglesi decine e decine di scrittori, ma che qualcuno (*cough*cough*V.S. Naipaul*cough) sostiene vengano fuori tutti uguali, come se fossero fatti con lo stampino. Mah, ci aggiorniamo quando avrò letto qualcosa della Téa (ormai la sento un po' come un'amica, vista la vicinanza anagrafica)! Nel frattempo, have a snippet of Téa Obreht here...

Yirmi Pinkus. La mia alternativa all'incontro con Kenaz, che non sono riuscita a prenotare, è quest'altro scrittore israeliano, anch'egli semi-sconosciuto in Italia. Introdotto da Moni Ovadia (un jack of all trades del festival visto che l'ho incrociato per ben tre volte), Yirmi Pinkus parla in quella strana ed indescrivibile lingua che è l'ebraico moderno, ma il suo romanzo, "Il Folle Cabaret del Professor Fabrikant", ha forte legami con la lingua yiddish, un tempo parlata da moltissimi ebrei in Europa ed ora presente in Israele attraverso gli artisti che decidono di ridare lustro al teatro yiddish. Attraverso un numero ragguardevole di storielle, i due ci accompagnano a conoscere questo tipo particolare di teatro in cui gli spettatori partecipano attivamente alle rappresentazioni, per esempio urlando "Salute!" quando gli attori stanno per bere un bicchiere di vino sul palco, e in cui la musica e le canzoni giocano una parte centrale. Non c'è quindi da stupirsi, racconta Ovadia, che il teatro yiddish abbia influenzato da un lato il teatro di Bertold Brecht e dall'altro il musical americano. Si tratta di un libro che resuscita un mondo che sta per andare perduto, dato che questo tipo di teatro-cabaret descritto da Pinkus è un po' deriso dagli israeliani in quanto retaggio di una cultura che appartiene al passato. Forse perché è difficilmente integrabile all'immagine moderna e nuova (nel senso di culturalmente nuova), che Israele vuole dare di sé. Alla fine mi sembra possa essere un libro divertente e arguto, con una tematica che si scosta dalle solite trite e ritrite. Un romanzo per parlare del teatro, questa la dovevo ancora sentire.       


Friday, September 2, 2011

"War and Peace" by Lev Tolstoj (volume one)



In one of his most famous essays, Friedrich Schiller distinguished between naïve poets and sentimental poets, the former writing spontaneously without planning anything and the second being very self-aware of their writing and the problems raised by their work.

Having read the first volume of “War and Peace”, I could not help but think that Tolstoj must be necessarily included in the naïve category, only to realise that this cannot be possible, that a writer like Tolstoj would have known where his story would go. While reading the first volume of Tolstoj’s grandiose effort, I constantly had the impression that the author was consciously writing about the pursuit of one’s happiness in life, but that he did not always have a clear-cut idea of where and how Pierre, Prince Andréj, Nikolaj Rostòv or Nataša could find it. I might be terribly wrong, because Tolstoj kept revising and rewriting episodes of the book for a very long time, so he must have had some idea of where he was going.

At the centre of the story there is history of course: the Napoleonic wars that saw Russia fighting alongside Austria against the French play a big role in the 'war parts', but it is the ultimate meaning of history that is at stake in this book. What is history and can common people ever be a part of it? “War and Peace” is also a huge canvas of Russian aristocracy, of its falseness and affectation above all. Ironically enough, while princes and counts converse in good French, Russia is at war with Napoleon, who is regarded as a charlatan of an emperor and cannot compete with his Russian counterpart, Alexander I. At the centre of the question, there are ideas about Russian identity and the influence of Europe. The characters in the story seem to be more spontaneous when they speak Russian or when they try to live a genuine, simple life that does not involve discussing politics or philosophy. It is not by chance that every major character is looking for happiness, whether through masonry, marriage or war achievements.

War and Peace” has many, maybe too many characters. For at least 300 pages you need to write them down on a piece of paper and constantly look at it. In spite of this, some of them really stand out: Pierre, the clumsy, illegitimate son of a wealthy count, who is lost and confused to the point of entering masonry was created with tenderness and affection by Tolstoj, who clearly saw much of himself in him. Then there is Prince Andréj Bolkonskij, a young officer with a pregnant wife and an eccentric father, and two siblings, Nikolaj and Nataša. He is a somehow idealistic young man who is in love with his orphan cousin Sonja to the despair of his impoverished parents, while Nataša, still a child at the beginning of the book, grows into a very beautiful young woman who is at a loss regarding her marriage. There are also some purely depraved characters like Hélène Kuraghina and her brother Anatole, libertines who clearly represent the moral corruption of the society of the time (Tojstoj wrote the novel in the 1860s, but set it in the earlier decades, which he probably found more interesting because of the historical events).

This is a complex novel which blends history with a family saga literally throbbing with life. It contains elements of philosophy, social sciences, politics and god knows what more. So far it has been an enriching experience to read it, but it has been rather demanding. Sometimes it feels like you are reading a very long director's cut, where episodes do not apparently lead to anything important or where you simply miss the point the author is trying to make, but I think it is just because Lev Tolstoj sometimes is in over my head.