
La verte punta molto sull’identità, sulla ricerca dei luoghi di appartenenza (“where we find belonging”). Kamila Shamsie afferma che il suo libro vuol parlare di quelle persone che non cercano necessariamente un paese di appartenenza, come Hiroko, la giovane giapponese che nel suo romanzo dopo lo scoppio della bomba di Nagasaki si rifugia in India prima e Pakistan dopo.
La scrittrice inoltre afferma di aver scritto un romanzo interessato alle persone che non prendono le decisioni, ma la cui vita è comunque influenzata dalle guerre e dalle decisioni dei potenti. “Ombre Bruciate” è un romanzo che parla anche di politica, ma non bisogna dimenticare che Kamila Shamsie è una scrittrice. Troppo spesso, infatti, durante queste conversazioni e in

Kamila Shamsie non porta il velo e potrebbe benissimo essere una donna italiana per abiti e colori. Ricorda al pubblico che il Pakistan ha avuto una donna come primo ministro, lasciando molti a bocca asciutta. Cerca di spiegare ai più cocciuti come il burqa sia stato una tradizione in alcuni paesi del Medio Oriente per secoli e come la visione che spesso abbiamo in Occidente dell’Islam sia falsata dai media e da un’interpretazione radicale di questa religione, che è molto minoritaria.
L’incontro è stato purtroppo rovinato da alcune domande a mio modesto parere banali, anche da parte dell’intervistatrice, Caterina soffici (quella della diatriba con Naipaul), che chiede alla Shamsie se si sente più pakistana o inglese. Lei ovviamente risponde che non ha mai pensato che scrivere in inglese significasse essere inglese, visto che quella lingua ormai appartiene a molti paesi e a molte persone. Anche rispondendo ad una domanda del pubblico dice stupita che l’inglese è la sua prima lingua, perché è la lingua con cui è cresciuta, con cui tutti le hanno parlato fin da quando è nata e ammette di aver avuto qualche titubanza al suo arrivo negli Stati Uniti solo al momento di comprare le spezie, perché ne conosceva i nomi solo in urdu.
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