Saturday, August 21, 2010

“Bypass al Cuore di Calcutta” di Alka Saraogi



Anno di prima pubblicazione: 1998
Genere: romanzo, saga familiare
Paese: India

Kishor Babu, dopo un’operazione di bypass, comincia a girare a piedi per le strade di Calcutta, mentre prima d’allora girava esclusivamente in auto e non si fidava di coloro che non la possedevano. Per di più, si allontana dal suo elegante quartiere europeo nel sud della città per addentrarsi nelle caotiche viuzze di Bara Bazar, il quartiere popolare nel nord di Calcutta dove abitava un tempo. Si mette a fissare la gente che mangia seduta in fila su panche di legno senza guardare né a destra né a sinistra e si fa domande come “le donne che camminano per la strada in città, dove vanno a fare pipì?”.
La moglie e i figli si preoccupano molto, pensano che sia impazzito. Kishor Babu, in realtà, è semplicemente alla ricerca del suo passato, sta rivalutando le scelte che ha fatto in gioventù. Appartenente alla comunità Marvari, potenti mercanti originari del Rajasthan, Kishor Babu è stato costretto a badare agli affari, dimenticando completamente gli ideali giovanili. Inizia quindi un viaggio della memoria che è anche un viaggio per le strade di Calcutta: Kishor Babu ricorda in particolare i due amici d’infanzia, Amolak e Shantnu, il primo tenace sostenitore di Gandhi e della lotta non violenta negli anni prima dell’indipendenza, il secondo acceso nazionalista hindu del Bengala che adora il controverso personaggio di Subhashchandra Bos. Kishor Babu ricostruisce però anche la storia della propria famiglia, una storia che si è voluta dimenticare nell’affanno di nascondere la provenienza da una famiglia piuttosto semplice. Dal bisnonno che si era arricchito anche grazie agli inglesi, fino ai ribaltamenti di fortuna e alle dispute tra studenti riguardo alla politica pre-indipendenza.
“Bypass al Cuore di Calcutta” è un libro complicato, con moltissimi riferimenti alla cultura e alla storia indiana (ma per fortuna c’è un glossario) ed un finale aperto, da interpretare, per giunta. Alka Saraogi condisce il racconto con un certo velato sarcasmo, non risparmiando critiche pungenti all’odierna società indiana guidata unicamente dal desiderio di arricchirsi, dimentica di antiche vocazioni più nobili. Questo è stato il mio primo libro tradotto dall’hindi, dopo una lunga lista di romanzi indiani scritti in inglese. Il fatto che il romanzo sia concepito soprattutto per un pubblico indiano infoltisce di molto l’apparato culturale che il lettore dev’essere disposto a capire e ad imparare e ciò ne fa un romanzo non per tutti i palati.
Mi hanno colpito in particolar modo i passaggi sulle donne. Dal punto di vista di Kishor Babu, che è convinto di essersi comportato nel miglior modo possibile nei confronti delle donne delle famiglia:

“Quanto era stato attento alla cognata Shanta.. Sulla sari bianca una macchia si vede subito. Se l’onore della cognata si fosse macchiato, la famiglia sarebbe stata disonorata per sempre. In casa non aveva mia lasciato entrare nessun uomo. Tre donne, cinque figlie: cioè in totale otto femmine. […] Non ci si può fidare di nessun uomo – Kishor Babu s’era fatto un nodo al fazzoletto – quale che sia l’aspetto che assume. Con questa convinzione, non aveva mai permesso alla mamma, alla cognata e alla moglie nemmeno di andare a una riunione religiosa, a una predica e al tempio. Quando ora Kishor Babu si volta indietro, non gli sembra di aver commesso degli errori. Conosce tutte le storie degli altri. Si è sempre comportato con grande cautela. Che c’è di sbagliato in questo? Alla fine, Rupan Deval sarà pure diventata un’altissima funzionaria, ma non è che una donna in fondo. Gil le ha dato o no una serie di sculacciate? E lui non ha mai ecceduto. La moglie di Madanmohan Singhaniya, quello che frequentava la sua stessa scuola, era costretta a stare seduta tutto il giorno su uno sgabello con il velo abbassato sul volto, al punto che, quando mangiava, il boccone invece che in bocca finiva nel naso. Shantnu si era sbellicato dalle risa. Se lo ricorda ancora. Kishor Babu non ha mai permesso a sua moglie di mettersi il segno di carminio, l’anello al naso, i campanellini e le cavigliere. Non ha fatto forare il naso alle figlie. Le donne non sono delle vacche o delle bufale da metter loro l’anello al naso. […] Aveva fatto studiare tutte le sue figlie fino al College. Non importa poi se solo due si fossero laureate e le altre erano state maritate prima di arrivare alla laurea. Le aveva mandate a scuola, tuttavia le aveva sempre tenute entro certi limiti. La troppa libertà non gli era mai andata a genio. Le aveva protette in ogni modo dagli sguardi degli estranei. Non aveva mai permesso loro di stare in piedi nella veranda, perché la gente per strada le avrebbe viste. L’unico contatto che aveva loro permesso con la strada era stato quello di uscire dalla porta e attraversare il marciapiedi, per sedersi nell’auto che aspettava sulla via. Non aveva mai permesso alle sue figlie di frequentare le case delle amiche. Né che andassero al cinema con le amiche. Parecchie volte le figlie si erano lamentare con la nonna, ma Kishor Babu non si era commosso. Come avrebbe potuto affrontare un simile rischio? Se in società si fosse sussurrata anche una sola volta una piccola malizia, lui avrebbe perso per sempre l’onore. Tutto quello che aveva costruito in tanti anni sarebbe finito nella polvere. Se l’uccellino nato in gabbia viene tenuto nella gabbia, non ne soffre. Ma se una sola volta lo si lascia volare in cielo, per poi chiuderlo di nuovo nella gabbia, smette di nutrirsi. In fin dei conti le ragazze dovevano andare in una casa estranea, dovevano occuparsi della loro famiglia. Se erano troppo vivaci, sarebbe stato un guaio per loro.” (pag. 276-77)

In questo caso specifico, mi pare ovvio che - a differenza di altri romanzi in cui manca un paradigma alternativo di riferimento - la scrittrice non condivide le opinioni del protagonista del suo romanzo riguardo alle donne, non solo perché lei stessa è una donna, ma anche per la sottile ironia di alcuni passaggi (il fatto che Kishor Babu non si fidi di nessun uomo ma che egli stesso sia uomo è non solo ironico ma anche molto più banalmente comico).



Sull'autrice: Alka Saraogi è nata nel 1960 a Calcutta e scrive in Hindi. Appartiene alla comunità Marvari. E' autrice di due raccolte di racconti: "Kahani ki talash men" (Alla Ricerca del Racconto, 1996), "Dusri kahani" (Un Altro Racconto, 2000), e di due romanzi: "Bypass al Cuore di Calcutta" e "La Storia di Ruby Di", entrambi editi da Neri Pozza. Alka Saraogi è stata protagonista di un incontro alla manifestazione letteraria Incroci di Civiltà, a cui ho assistito.
Ne parlo qui.

Wednesday, August 11, 2010

Festivaletteratura - 8/12 settembre 2010



Dall'8 al 12 settembre si svolgerà a Mantova il Festivaletteratura, una delle più importanti manifestazioni letterarie italiane.

Tra gli autori postcoloniali presenti ricordo Hanif Kureishi, Zadie Smith, Kamila Shamsie, V.S. Naipaul, Azar Nafisi, Tishani Doshi e Chris Abani.
E poi tantissimi grandi del mondo della cultura, dallo scrittore scozzese Ian Rankin all'astrofisica Margherita Hack, dall'attore comico e presentatore televisivo Neri Marcorè con la sua spalla Piero Dorfles al giornalista d'inchiesta Fabrizio Gatti e al giornalista e scrittore Corrado Augias.

Monday, August 9, 2010

“Il Buio Non Fa Paura” di Shashi Deshpande


Anno di prima pubblicazione: 1980
Genere: romanzo
Paese: India

In English: “The Dark Holds No Terrors” by Shashi Deshpande. Questo libro è stato pubblicato in italiano anche con il titolo “Il Buio Non Nasconde Paure”.

Saru sembra a tutti gli effetti una donna realizzata: è medico, ha due figli stupendi e ha avuto un matrimonio d’amore con un affascinante poeta, valicando i confini di casta tra l’altro. Tuttavia nell’oscurità della sua camera da letto un uomo le fa violenza tutte le notti e poco importa che si tratti del marito Manhar, che di giorno si comporta come se nulla fosse. Inoltre, Saru non ha nessun contatto con i propri genitori da anni e nel suo passato aleggia la morte del fratellino Dhruva di cui era molto invidiosa, annegato da piccolo. Poco a poco capiamo che Saru si sente in colpa per il proprio successo professionale, specialmente in opposizione al marito, diventato un poeta fallito e ridotto ad insegnare in un college di infima categoria. Un giorno decide di tornare a casa del padre, dopo aver saputo che la madre è morta di cancro. Lui l’accoglie in casa indifferente, senza fare domande. Nella sua vecchia cameretta c’è Madhav, uno studente universitario che affitta la stanza, e i due si fanno compagnia. Madhav è come un secondo figlio per il papà di Saru, anche se questo lei non lo capisce subito. Saru avrà una specie di seconda possibilità: non abbandonare il fratellino e non essere crudele con lui.
La cosa che mi ha colpito di più della narrativa di Shashi Deshpande (ho letto anche i primi capitoli di “Questione di Tempo”, disponibili in inglese su Google Books) è che non è per nulla esotica, nel senso che le storie di donne che narra potrebbero svolgersi in qualsiasi paese del mondo: gli Stati Uniti o l’Italia, per esempio. Un’altra particolarità di Shashi Deshpande, per lo meno in questo libro e in “Questione di Tempo”, è che usa la mitologia per spiegare situazioni delicate, momenti particolari vissuti dai protagonisti, e a volte utilizza dei nomi legati al mito per caratterizzare i personaggi (come accade tra l’altro nei film di Deepa Mehta, basti pensare a Sita in “Fire”). All’inizio di “Il Buoi Non Fa Paura”, per esempio, quando Saru si presenta alla porta della casa del padre, come una specie di figliol prodigo, lei si paragona a Sudama coperto di stracci che si presenta alle porte del palazzo di Krishna e della sua regina Rukmini. La storia, tratta dal “Bhagavata Purana”, racconta di Sudama, che era stato amico di Krishna in gioventù e che, pur essendo un bramino, è povero. Non avendo di che cibare i figli, Sudama si reca al palazzo di Krishna, che invece è di stirpe reale, e viene accolto con tanto amore, sebbene i due non si fossero visti per molti anni. Sudama si dimentica persino di chiedere il favore a Krishna, ma la regina Rukmini trasforma la sua capanna in un palazzo in cui il povero bramino vivrà per il resto dei suoi giorni.
Tutto il libro gira intorno alle relazioni interpersonali all’interno della famiglia: Saru sente che la madre le serbava rancore per la morte del fratellino ed è convinta che entrambi i genitori avrebbero preferito che fosse stata lei ad annegare. Dietro a tutto ciò c’è l’amara consapevolezza da parte di Saru (e di Shashi Deshpande, oserei dire) che in una famiglia tradizionale indiana il figlio maschio, anche se non primogenito, è spesso il preferito e quello a cui si dà l’educazione migliore.
La crudeltà è forse la parola chiave del libro: i personaggi sono crudeli uno con l’altro. Manu è crudele con Saru perché durante la notte la violenta e poi finge che non sia successo nulla facendole pensare di essere pazza, mentre Saru è stata crudele con i suoi genitori ed era crudele con Dhruva.
Anche per la relazione tra i due fratelli, Dhruva e Saru, si ricorre al mito: il fratellastro invidioso di Dhruva aveva fatto cadere il fratellino dalle braccia del padre e lui, in pena, aveva cominciato a meditare e meditare, trasformandosi infine nella Stella Polare. Saru, convinta che il mito fosse reale, fa la stessa cosa con il fratellino.
Anche alla fine del libro, si ricorre al mito: Saru sta aspettando che il marito, giunto nella casa paterna, bussi alla porta e per l’occasione rievoca Duryodhana, l’ultimo dei fratelli Kaurava rimasto vivo nel “Mahabharata”, che aspetta i propri nemici presso un lago. Si tratta dello stesso passo che la madre si era fatta rileggere poco prima di morire. Saru si è finalmente decisa a non scappare e ad affrontare il marito faccia a faccia, per parlargli della fine della loro storia d’amore. Saru diventa piano piano cosciente che in parte sua madre aveva ragione e che il fatto di guadagnare più del marito, accanto al fatto che la sua occupazione fosse quella, molto romantica, di essere poeta, ha finito per distruggere il loro rapporto. Sotto questa nuova consapevolezza, c’è tutto un mondo di rapporti uomo-donna che la Deshpande cerca di esplorare con tatto.

Sull’autrice:
Shashi Deshpande è nata nel 1938 in Karnataka, figlia del famoso scrittore e drammaturgo in lingua kannada Sriranga. Ha pubblicato la sua prima collezione di racconti nel 1978 e il suo primo romanzo, “Il Buoi Non Fa Paura”, nel 1980. Ha scritto nove romanzi (“Questione di Tempo” e “Piccoli Rimedi” si dovrebbero trovare anche in italiano) oltre che libri per l’infanzia, racconti e numerosi saggi.

Friday, August 6, 2010

"Casa Howard" di E.M. Forster e "Della Bellezza" di Zadie Smith

La mia recensione di “Casa Howard” (Howards End) di E.M. Forster si trova a questo link. Visto che in coda all’articolo avevo menzionato il lavoro di semi-adattamento fatto da Zadie Smith con il suo libro “Della Bellezza” (“On Beauty”) in questa sede mi piacerebbe parlarvi di quel romanzo.
Il mondo degli adattamenti e degli “up-date letterari” è sterminato. C’è chi ha ricreato un capolavoro del cinema come “Psycho” ricalcando ogni minima inquadratura, come ha fatto Gus Van Sant nel 1998, e c’è chi ha creato dei cosiddetti spin-off, delle divagazione sul tema per così dire. Un esempio di quest’ultimo tipo di adattamenti in letteratura che mi salta alla mente è “Il Grande Mare dei Sargassi” (“Wide Sargasso Sea”, 1966) della scrittrice dominicana Jean Rhys che, partendo dal personaggio di Bertha Mason, la moglie pazza di Mr Rochester in “Jane Eyre”, ha scritto un romanzo che ne spiega la storia e le ragioni della pazzia. C’è chi ovviamente ha riscritto un classico adattandolo ai tempi moderni (numerosissimi gli adattamenti, cinematografici e letterari, di Shakespeare) e chi ha creato un ibrido.
Creare un ibrido è proprio quello che ha fatto Zadie Smith con “Della Bellezza” (“On Beauty”, 2005), che è un adattamento-non adattamento di “Casa Howard” (“Howards End”, 1910) di E.M. Forster. L’intento è evidente fin dalla prima frase, che ricalca quel famosissimo “One may as well begin with Helen’s letters to her sister” (solo che nel caso del romanzo di Zadie Smith si tratta di e-mail e non di lettere). Il romanzo parte dalla struttura di fondo di “Casa Howard” – due famiglie estremamente diverse tra loro, dagli ideali quasi opposti, eppure attratte l’una dall’altra, che dibattono su questioni legate alla bellezza, all’arte, alle classi sociali e alla cultura – per poi divagare, modificare gli avvenimenti, inserire temi non presenti nel romanzo di partenza e mescolarne i personaggi. Quel che ne risulta è un romanzo di una complessità non indifferente in termini di psicologia dei personaggi, che è stato recepito con pareri discordanti, anche perché gioca molto sugli stereotipi culturali e razziali.
L’autrice stessa ammette di non aver nemmeno riletto il libro prima di mettersi alla stesura di questo suo terzo romanzo e che i due libri si incontrano solo in due o tre punti (cruciali però aggiungerei io, per esempio la scena in cui Leonard-Carl dimentica un ombrello, che diventa un walkman nella versione di Zadie). “Howards End”, per Zadie Smith, è stato semplicemente “a little hook to hang a novel on”, un piccolo gancio a cui appendere il romanzo.
I protagonisti di “On Beauty” sono due famiglie, i Kipps e i Bentley, che vivono in America, in un quartiere residenziale di una cittadina universitaria della East Coast. L’etnicità delle due famiglie è molto importante per lo svolgersi della vicenda: Howard Bentley è inglese e bianco, mentre la moglie è nera e viene dalla Florida. I figli di conseguenza sono “mixed-race” e alla ricerca della loro identità. Ma attenzione, ci avverte l’autrice, non sono alla ricerca di un’identità perché di razza mista (ma quanto suona male in italiano?), quanto perché appartengono alla modernità che ha creato quest’idea di dover cercare la propria identità, cosa che fa impazzire tutti, mixed-race or not. La famiglia Kipps, di origine caraibica, è quella conservatrice, con la figlia mangiauomini che dovrebbe equivalere allo sciupafemmine che all’inizio di “Howards End” seduce Helen e poi parte per l’Africa defilandosi dal romanzo. Eppure Monty Kipps, il capofamiglia, non equivale a Henry Wilcox, perché alcune sue caratteristiche si riscontrano in Howard, per esempio una certa ottusità nei confronti dell’arte, quella di Rembrandt in particolare. Sarebbe interessantissimo studiare – e sono certa che è già stato fatto in qualche saggio o tesi di laurea - quello che fa Zadie con “Howards End”: dove i due romanzi si incontrano e dove differiscono. La casa, Howards End appunto, diventa per esempio un quadro di un artista haitiano, forse simbolo della ricerca di una certa identità (africana, nera, della migrazione, di quel cavolo che vi pare). Forse quello che Zadie ci vuole trasmettere attraverso questo romanzo – godibilissimo anche se non conoscete la versione di Forster – è che nel ventesimo secolo (e ancora di più nel ventunesimo) le identità, così come la divisione in classi sociali, sono complesse, sovrapponibili, quasi insondabili, ovviamente malleabili e difficilmente gestibili se ci ostiniamo a piazzarle in compartimenti stagni. Non è un caso che Levi, il più giovane tra i figli di Howard, vada in cerca di un’identità “street” tra gli immigrati haitiani, modificandola però, intellettualizzandola e adattandola a sé stesso.
Il romanzo di Zadie Smith è intitolato come un saggio ma in realtà è esattamente l’opposto, cioè un romanzo molto aperto, che non si sa dove porti, ma che parla espressamente di bellezza, in una miriade di forme diverse una dall’altra. C’è la bellezza dei quadri di Rembrandt che Howard non riesce a riconoscere, la bellezza fisica prorompente di Carl e Vee, quella intellettuale di Zora, quella materna di Kiki e poi naturalmente quella della bellezza della scrittura di questa giovane scrittrice inglese che ci regala sempre emozioni e cose su cui riflettere.

A proposito… Zadie Smith a settembre sarà al Festivaletteratura di Mantova, non perdetevela!
Scrissi di lei anche qui, in occasione di un'intervista fatta (non da me!) durante il periodo che ha passato a Roma, nel quartiere Monti, dove ha vissuto con il marito. Ne uscirono riflessioni interessanti sul dibattito letterario (inesistente secondo le Zadie) in Italia.