Siccome con il gruppo di Anobii "Un Filo d'India" ho creato e sto mediando (più o meno) un gruppo di lettura per "Chiara Luce del Giorno" di Anita Desai, mi è parso carino tradurre un'introduzione al romanzo scritta dalla scrittrice pachistana Kamila Shamsie (del cui ultimo libro avevo parlato qui).
I piccioni, ci dice Anita Desai in “Chiara Luce del Giorno” hanno un “talento unico nel combinare rimostranza e soddisfazione in un singolo tono”. E’ uno dei pochi esempi dove si sbaglia. Non riguardo al tono ovviamente – come accade molto spesso nella scrittura della Desai, le sue facoltà di osservazione sono così acute che è impossibile criticarle o persino credere che per talmente tanto tempo non abbiamo visto le cose esattamente come ce le rivela lei. Dopotutto quello è il potere della sua scrittura. Le descrizioni sembrano rivelazioni: perciò ci viene rivelato che la terra bagnata e le piante rinfrescate hanno un “odore verde”, che le buganvillee spinose non dovrebbero più sembrare solo sfiorare i muri, ma graffiarli, che una lumaca che si arrampica su una zolla di terra per poi cadere è un “eterno minuscolo Sisifo”. Dove si sbaglia, però, è nell’attribuire la singolarità del talento ai piccioni per la loro abilità nel tenere due note nello stesso tono.
In “Chiara Luce del Giorno”, la Casa (che richiede la lettera maiuscola di un nome proprio perché nel libro è un personaggio talmente vivido) mantiene almeno due toni in uno allo stesso tempo. E’ prigione o rifugio? Un passato chiuso in un cassetto o un’oasi di continuità tra un clamore di cambiamenti? Chi sono i fratelli fortunati – quelli che sono scappati (Raja e Tara) o quelli che sono rimasti (Bim e Baba)? Dalle prime due frasi siamo in un mondo di dualità:
I cuculi cominciarono a lanciare i loro richiami ancor prima dell’alba. Le loro voci emergevano come un concerto di campane dalle fronde oscure degli alberi, chiamandosi e facendosi eco reciprocamente, schernendosi e istigandosi a vicenda con trilli via via più acuti.
Dal concerto di campane, che annunciano l’inizio della giornata, scivoliamo in una gara di acutezza – armonia e cacofonia separate solo da una virgola. Coloro che parlano delle superfici di calma o dell’immobilità ingannevole di Anita Desai dimenticano completamente la sua abilità di far sentire a disagio i suoi lettori fin dall’inizio, a maggior ragione perché è incerta la natura di quel disagio. Da dove spunta? A chi è diretto? Se questo è un genere, potrebbe essere chiamato gotico indiano. Come accade con i migliori scrittori del Southern Gothic americano, la Desai non sovrappone semplicemente bellezza e bruttezza, ma rende alle volte impossibile districare le due cose. I rapporti tra Bim e i suoi tre fratelli sono allo stesso tempo terribili e teneri; la vita naturale che abbonda intorno alla casa – i pappagalli, i gulmohar, gli alberi di guava, i cuculi, i piccioni – sono simbolo sia di vita che dello stato di abbandono; Mira-masi è grottesca e straziante. E la dualità gotica del romanzo continua in altri modi: tutti gli eventi nel presente della storia sono banali (una sorella arriva in visita, si beve il tè con i vicini, un fratello esce dal cancello principale e poi torna a casa, viene presentato e rifiutato un invito ad un matrimonio) ma sconvolgenti (violenza, tensione, imprevedibilità). E sì, come nello stile gotico tradizionale, si menzionano i fantasmi – il fantasma di Mira-Masi, dei genitori di Bim e Tara, della mucca la cui carcassa marcisce ancora in fondo al pozzo. Ma il vero fantasma – quello che abita in ogni angolo della casa e cammina accanto a Bim e a Tara, un terzo uomo che non si vede ma si percepisce in ogni conversazione - è il passato.
Prima di ogni altra cosa, è un romanzo sulla partizione. Il 1947 è lo sfondo, e nella seconda sezione il primo piano, della storia. Che a “Chiara Luce del Giorno” non sia stato accordato il suo meritato posto come uno dei principali “romanzi della partizione” potrebbe avere qualcosa a che fare con il suo punto di vista laterale: fugaci allusioni e attenzione ai piccoli dettagli che echeggiano e riverberano, invece di schiettezza. Si prenda, per esempio, la questione della scelta del campo di studi universitari di Raja nei mesi precedenti la partizione. Con il suo amore per l’urdu aveva deciso di iscriversi al Jamia Millia per frequentare Studi Islamici, ma suo padre non fu d’accordo, sostenendo che sarebbe stato in pericolo di attacchi da parte sia dei fanatici musulmani che di quelli indù se avesse continuato con quel corso. Qual è, quindi, il campo di studi politicamente neutrale a cui Raja si iscrive negli ultimi giorni del Raj? Letteratura inglese. E’ un momento minimo, menzionato solo una volta en passant, ma l’ironia storica è enorme.
E’ attraverso Raja, il suo amore per l’urdu e l’ossessione per la famiglia Hyder Ali che la storia della partizione è rappresentata con maggior chiarezza. Ma echeggia in altre storie: la discesa di Mira-masi verso l’alcolismo nel ’47 può essere vista come una reazione alla pazzia del mondo esterno e c’è il rifiuto dell’India post-partizione nell’insistenza di Bim di rimanere nella Vecchia Delhi, dove “qualsiasi cosa sia successa, è successa secoli fa, all’epoca dei Tughlaq, dei Khilji, del sultanato, i Moghul, secoli fa”. Questo non è un romanzo di persone che sono costrette a lasciare le loro case a causa della Partizione, o affrontare violenza sempre a causa sua; è un racconto complessivamente più sottile su come la partizione scardini il mondo della Vecchia Delhi.
Ecco l’unica considerazione del romanzo sui campi profughi:
Qui non c’era luce, eccetto per il bagliore fioco dei fornelli da cucina, macchiati dal fumo, dalla polvere e dal crepuscolo. Sciamavano e si muovevano impercettibilmente con una specie di vita sotterranea da storpi che faceva pensare a Bim che la città non si sarebbe più ripresa da questo orrore, che sarebbe cambiata irrimediabilmente, che era già cambiata e non era più la città in cui era nata. *
Non si dice di più dei campi profughi. Per i propositi del romanzo, non ce n’è bisogno. Guardare i campi e vedere che c’era vita lì dentro significava capire e sentire che il mondo era cambiato in maniera brutale. L’orrore si propaga verso l’esterno come una spirale e non esclude nessuno. Detto questo, sarebbe sbagliato pensare a “Chiara Luce del Giorno” come ad un romanzo che lascia spazio alla nostalgia. E’ lamento per quello che è andato perso, non uno sguardo tinto di rosa al passato. Ma non si ferma solamente al lamento, che echeggia e gira eternamente intorno a sé stesso; il vero significato del passato qui è la domanda pressante di come vivere nel presente che è stato costruito con quel passato. La struttura in quattro sezioni del romanzo rispecchia questa domanda: presente, passato, passato più lontano, di nuovo presente. Muoversi all’indietro per capire dove si è ora; entrare nel passato ma poi tornare al presente. Ed è un presente che – avendo guardato indietro e avendone visto il riflesso – finalmente, in un modo bellissimo, incorpora il mondo del guru Mulk, di T.S. Eliot e anche di Iqbal. Niente di falso o forzato a riguardo. Il tempo che distrugge è veramente il tempo che preserva. Naturalmente, niente di tutto ciò funzionerebbe - non il lamento, non gli elementi gotici, non le ironie storiche, non la mescolanza di tradizioni che inizialmente erano separate – se, sia inizialmente che nel finale, i personaggi non funzionassero. E’ un romanzo brulicante di persone: i quattro fratelli nella Casa e i quattro fratelli Misra in quella accanto, i genitori che sono presenze spettrali anche prima di morire, Mira-Masi, gli appena intravisti ma mai dimenticati Hyder Ali, il dottor Biswas e sua madre, il diplomatico Bakul. E’ un’impresa complicata tenere tutti questi personaggi nello specchio del romanzo, con trame diverse che emergono e facendo sentire la loro presenza anche quando non sono visti. Ma al centro di tutti, a volte sincronizzate, a volte andando alla deriva e a volte turbinando via l’una dall’altra, ci sono le due sorelle: Bim e Tara. La moglie del diplomatico che vive distante, l’insegnante zitella che non se ne è mai andata di casa. Sono agli antipodi nel modo in cui solo i fratelli possono essere: la loro opposizione si manifesta nelle risposte diverse agli stessi eventi. Mentre ci muoviamo con loro attraverso gli acuti dettagli delle loro giornate - scuotere i petali di una rosa, leccare un gelato di color rosa acceso, immaginare il gusto della guava acerba, ascoltare un disco che si blocca in un solco, esaminarsi la vita l’un l’altro – passiamo attraverso i confini tra quello che è reale e quello che è immaginato. E’ il dono più grande che uno scrittore di romanzi possa farci.
In “Chiara Luce del Giorno”, la Casa (che richiede la lettera maiuscola di un nome proprio perché nel libro è un personaggio talmente vivido) mantiene almeno due toni in uno allo stesso tempo. E’ prigione o rifugio? Un passato chiuso in un cassetto o un’oasi di continuità tra un clamore di cambiamenti? Chi sono i fratelli fortunati – quelli che sono scappati (Raja e Tara) o quelli che sono rimasti (Bim e Baba)? Dalle prime due frasi siamo in un mondo di dualità:
I cuculi cominciarono a lanciare i loro richiami ancor prima dell’alba. Le loro voci emergevano come un concerto di campane dalle fronde oscure degli alberi, chiamandosi e facendosi eco reciprocamente, schernendosi e istigandosi a vicenda con trilli via via più acuti.
Dal concerto di campane, che annunciano l’inizio della giornata, scivoliamo in una gara di acutezza – armonia e cacofonia separate solo da una virgola. Coloro che parlano delle superfici di calma o dell’immobilità ingannevole di Anita Desai dimenticano completamente la sua abilità di far sentire a disagio i suoi lettori fin dall’inizio, a maggior ragione perché è incerta la natura di quel disagio. Da dove spunta? A chi è diretto? Se questo è un genere, potrebbe essere chiamato gotico indiano. Come accade con i migliori scrittori del Southern Gothic americano, la Desai non sovrappone semplicemente bellezza e bruttezza, ma rende alle volte impossibile districare le due cose. I rapporti tra Bim e i suoi tre fratelli sono allo stesso tempo terribili e teneri; la vita naturale che abbonda intorno alla casa – i pappagalli, i gulmohar, gli alberi di guava, i cuculi, i piccioni – sono simbolo sia di vita che dello stato di abbandono; Mira-masi è grottesca e straziante. E la dualità gotica del romanzo continua in altri modi: tutti gli eventi nel presente della storia sono banali (una sorella arriva in visita, si beve il tè con i vicini, un fratello esce dal cancello principale e poi torna a casa, viene presentato e rifiutato un invito ad un matrimonio) ma sconvolgenti (violenza, tensione, imprevedibilità). E sì, come nello stile gotico tradizionale, si menzionano i fantasmi – il fantasma di Mira-Masi, dei genitori di Bim e Tara, della mucca la cui carcassa marcisce ancora in fondo al pozzo. Ma il vero fantasma – quello che abita in ogni angolo della casa e cammina accanto a Bim e a Tara, un terzo uomo che non si vede ma si percepisce in ogni conversazione - è il passato.
Prima di ogni altra cosa, è un romanzo sulla partizione. Il 1947 è lo sfondo, e nella seconda sezione il primo piano, della storia. Che a “Chiara Luce del Giorno” non sia stato accordato il suo meritato posto come uno dei principali “romanzi della partizione” potrebbe avere qualcosa a che fare con il suo punto di vista laterale: fugaci allusioni e attenzione ai piccoli dettagli che echeggiano e riverberano, invece di schiettezza. Si prenda, per esempio, la questione della scelta del campo di studi universitari di Raja nei mesi precedenti la partizione. Con il suo amore per l’urdu aveva deciso di iscriversi al Jamia Millia per frequentare Studi Islamici, ma suo padre non fu d’accordo, sostenendo che sarebbe stato in pericolo di attacchi da parte sia dei fanatici musulmani che di quelli indù se avesse continuato con quel corso. Qual è, quindi, il campo di studi politicamente neutrale a cui Raja si iscrive negli ultimi giorni del Raj? Letteratura inglese. E’ un momento minimo, menzionato solo una volta en passant, ma l’ironia storica è enorme.
E’ attraverso Raja, il suo amore per l’urdu e l’ossessione per la famiglia Hyder Ali che la storia della partizione è rappresentata con maggior chiarezza. Ma echeggia in altre storie: la discesa di Mira-masi verso l’alcolismo nel ’47 può essere vista come una reazione alla pazzia del mondo esterno e c’è il rifiuto dell’India post-partizione nell’insistenza di Bim di rimanere nella Vecchia Delhi, dove “qualsiasi cosa sia successa, è successa secoli fa, all’epoca dei Tughlaq, dei Khilji, del sultanato, i Moghul, secoli fa”. Questo non è un romanzo di persone che sono costrette a lasciare le loro case a causa della Partizione, o affrontare violenza sempre a causa sua; è un racconto complessivamente più sottile su come la partizione scardini il mondo della Vecchia Delhi.
Ecco l’unica considerazione del romanzo sui campi profughi:
Qui non c’era luce, eccetto per il bagliore fioco dei fornelli da cucina, macchiati dal fumo, dalla polvere e dal crepuscolo. Sciamavano e si muovevano impercettibilmente con una specie di vita sotterranea da storpi che faceva pensare a Bim che la città non si sarebbe più ripresa da questo orrore, che sarebbe cambiata irrimediabilmente, che era già cambiata e non era più la città in cui era nata. *
Non si dice di più dei campi profughi. Per i propositi del romanzo, non ce n’è bisogno. Guardare i campi e vedere che c’era vita lì dentro significava capire e sentire che il mondo era cambiato in maniera brutale. L’orrore si propaga verso l’esterno come una spirale e non esclude nessuno. Detto questo, sarebbe sbagliato pensare a “Chiara Luce del Giorno” come ad un romanzo che lascia spazio alla nostalgia. E’ lamento per quello che è andato perso, non uno sguardo tinto di rosa al passato. Ma non si ferma solamente al lamento, che echeggia e gira eternamente intorno a sé stesso; il vero significato del passato qui è la domanda pressante di come vivere nel presente che è stato costruito con quel passato. La struttura in quattro sezioni del romanzo rispecchia questa domanda: presente, passato, passato più lontano, di nuovo presente. Muoversi all’indietro per capire dove si è ora; entrare nel passato ma poi tornare al presente. Ed è un presente che – avendo guardato indietro e avendone visto il riflesso – finalmente, in un modo bellissimo, incorpora il mondo del guru Mulk, di T.S. Eliot e anche di Iqbal. Niente di falso o forzato a riguardo. Il tempo che distrugge è veramente il tempo che preserva. Naturalmente, niente di tutto ciò funzionerebbe - non il lamento, non gli elementi gotici, non le ironie storiche, non la mescolanza di tradizioni che inizialmente erano separate – se, sia inizialmente che nel finale, i personaggi non funzionassero. E’ un romanzo brulicante di persone: i quattro fratelli nella Casa e i quattro fratelli Misra in quella accanto, i genitori che sono presenze spettrali anche prima di morire, Mira-Masi, gli appena intravisti ma mai dimenticati Hyder Ali, il dottor Biswas e sua madre, il diplomatico Bakul. E’ un’impresa complicata tenere tutti questi personaggi nello specchio del romanzo, con trame diverse che emergono e facendo sentire la loro presenza anche quando non sono visti. Ma al centro di tutti, a volte sincronizzate, a volte andando alla deriva e a volte turbinando via l’una dall’altra, ci sono le due sorelle: Bim e Tara. La moglie del diplomatico che vive distante, l’insegnante zitella che non se ne è mai andata di casa. Sono agli antipodi nel modo in cui solo i fratelli possono essere: la loro opposizione si manifesta nelle risposte diverse agli stessi eventi. Mentre ci muoviamo con loro attraverso gli acuti dettagli delle loro giornate - scuotere i petali di una rosa, leccare un gelato di color rosa acceso, immaginare il gusto della guava acerba, ascoltare un disco che si blocca in un solco, esaminarsi la vita l’un l’altro – passiamo attraverso i confini tra quello che è reale e quello che è immaginato. E’ il dono più grande che uno scrittore di romanzi possa farci.
* Non sono riuscita a trovare il passaggio in italiano nel mio libro, quindi ho tradotto io malamente. Se lo trovo sostituisco la traduzione (n.d.T.).