Tuesday, April 14, 2009

9. "Londonstani" di Gautam Malkani

Anno di pubblicazione: 2006
Genere: romanzo
Paese: Regno Unito / India

In italiano: “Londonstani” di Gautam Malkani, edito da Guanda (2007), € 17

Sull’autore: Gautam Malkani è nato a Hounslow, Londra, nel 1976 da una madre ugandese di origini indiane. Ha studiato a Cambridge ed è un giornalista del Financial Times. Londonstani è il suo primo romanzo.

Trama: Si tratta della storia di quattro ragazzi figli, o figli dei figli, degli immigrati indiani in Inghilterra: Hardjit, Amit, Ravi e Jas. Si definiscono “rudeboys” e, dopo essere stati bocciati agli esami di maturità (A-level) campano un po’ con i soldi dei ricchi genitori e un po’ con un piccolo giro d’affari per sbloccare i cellulari dal gestore telefonico. La storia è narrata da Jas, che si innamora di una ragazza musulmana, Samira Ahmed, nonostante il divieto dei suoi amici. Sullo sfondo ci sono Hounslow, periferia di Londra, conflitti d’identità e di classe, ma anche il disagio adolescenziale e la difficoltà di avere un rapporto naturale con i propri genitori.

Alcuni pensieri: La cosa che mi ha spiazzato di più di questo libro è il linguaggio: un miscuglio tra l’inglese che si usa per scrivere gli SMS, un bel po’ di “gangsta English” e molte parole hindi/punjabi, il tutto condito con abbondanti parolacce e sconcezze in almeno tre lingue. Superato l’ostacolo iniziale (mi davano fastidio le parolacce ed ero più lenta del solito a leggere, perché dovevo decifrare tutte le abbreviazioni e lo slang) il libro è filato via liscio. In definitiva mi è piaciuto molto: mi sono sentita catapultata nel mondo di questi ragazzi, forse un po’ perché vivendo anch’io a Londra conoscevo gran parte dei riferimenti geografici. Per la strada, a scuola o in metropolitana incontro molti di questi adolescenti anglo-indiani che qualche volta parlano una lingua semi-incomprensibile. La maggior parte dei riferimenti culturali, ad ogni modo, riguardavano la cultura popolare indiana: musica e Bollywood principalmente, quindi in alcune parti devo confessare che mi sono sentita un po’spaesata, pur avendo letto credo ormai una ventina di romanzi con protagonisti indiani/pakistani della diaspora.
Mi è piaciuta molto la caratterizzazione dei personaggi, che escono da una tesi di laurea sui legami tra mascolinità ed etnicità nella zona di Hounslow, dove è ambientato il romanzo e da dove viene l’autore. C’è Hardjit (vero nome Harjit) un palestrato con una tigre tatuata sul braccio che è il vero leader della banda. La tigre rappresenta da un lato il fatto che Hardjit è il capo della combriccola di delinquentelli, dall’altro la sua aggressività e rabbia insensata verso tutti, specialmente per i non desi, chiamati anche gora (e qui potrei fare come nel libro e non farvi capire oppure mettere la nota a piè pagina). La tigre tatuata sul braccio di Hardjit ha infatti un’accezione negativa nelle culture asiatiche: è uno dei tre “Senseless Animals” del buddhismo e basta citare Shere Khan de Il Libro della Giungla per ricordarvi che neanche in India è vista di buon occhio. In realtà Hardjit è un mammone figlio di papà (“mummy’s boy” si direbbe in inglese) che gioca a fare il delinquente. Amit è invece tutto preso da quella che lui definisce “complicated family-related shit”: suo fratello Arun si deve infatti sposare e le schermaglie tra le due famiglie, che non appartengono alla stessa casta, fanno impazzire i due fratelli e di conseguenza anche il nostro narratore, Jas, che cerca di far ragionare tutti quanti ma alla fine è quello che ne esce più male. La questione è naturalmente legata al fatto che quello di Arun è un matrimonio d’amore, mentre i genitori erano convinti che un matrimonio combinato con una famiglia della loro casta sarebbe stato molto più semplice e conveniente per tutti. Poi c’è Jas, il narratore, in partenza un bravo ragazzo e un buono studente, che si è aggregato da poco al gruppetto di “rudeboys” e che è genuinamente attratto da una ragazza musulmana di nome Samira. I suoi amici gli hanno proibito di frequentarla, ma lui è testardo e inizia a uscire con lei, cercando di non far sapere niente a Hardjit e ai fratelli di Samira, che al contrario di lei sono integralisti e non accetterebbero che la sorella si veda con un non-musulmano. Jas, accecato dalla smania di piacere alla bellissima Samira, accetta i consigli di Sanjay, un giovane e losco imprenditore che da Hounslow è riuscito a “conquistare la City” ed ora vive nel lusso.
Qualcuno ha detto che questo libro non è autentico, nel senso che chi lo ha scritto non è un adolescente, non usa abitualmente quel gergo e non ha come unica prospettiva per il futuro un lavoro come scaricatore di valigie all’aeroporto di Heathrow (l’autore è infatti un giornalista per il Financial Times ed è andato all’università a Cambridge). Il Guardian scrive:

One reviewer described it as 'lazy, stereotypical and, worst of all for a "street-cred" novel, passé', while another dismissed it as an Ali G-style spoof written in an almost impenetrable gibberish that claims to be the vibrant language of today's Asian youth. [vedi questo articolo]


Ad ogni modo, tutti pensano che l’idea del libro sia buona, specialmente alla luce del colpo di scena finale, ma che appunto il linguaggio e gli atteggiamenti dei protagonisti suonino falsi. A parte che secondo me l’autore ha fatto una ricerca pazzesca per riuscire a sembrare autentico, ma lo stesso romanzo scritto da un adolescente che non è neanche riuscito a passare i suoi A-level non sarebbe così ben scritto. Quelli che vogliono la realtà che vadano a guardarsi un documentario; poi è chiaro che alcune espressioni possono sembrare datate (mi ricordo la parola “scene” per dire "cool" in On Beauty di Zadie Smith che mi faceva lo stesso effetto) ma non è questo il punto del libro: anche Il Giovane Holden oggi ha un linguaggio un po' datato, eppure rimane un bellissimo libro.
Non ho idea di come questo libro sia stato tradotto in italiano, ma dev’essere stata un’impresa. E’ uno di quei libri che vanno assolutamente letti in lingua originale, altrimenti perdono almeno metà della loro particolarità. Mi chiedo, tra le altre, che parola venga usata in italiano all’inizio del libro quando la gang picchia un ragazzo perché li ha chiamati “paki”, che in Inghilterra è l’insulto più comune per una persona di origine indiana, pakistana o bengalese, ma che non ha un corrispondente in italiano.
La cosa più scioccante però è il finale, che non vi rivelerò. Leggetelo.

3 comments:

  1. Appena finito di leggerlo, a me è piaciuto molto, a dispetto delle critiche. Ne avevo sentito parlare un paio d'anni fa, poi l'avevo trovato in un negozio di libri usati a Perth, in Australia. Pur avendo già letto testi in inglese, però, il linguaggio mi sembrava semi-impossibile e ho deciso di leggerlo in italiano. E anche nella versione italiana "paki" è rimasto "paki". Molte altre parole sono state inventate dal traduttore, che credo abbia fatto un buon lavoro, mentre per quelle rimaste non tradotte è stato messo un glossario a fine libro che spiega i termini più usati e di più difficile comprensione.
    paoloalfieri@yahoo.it

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  2. La scelta di inserire un glossario è utile quando ci sono molte parole di una cultura completamente estranea, mi ricordo un libro di un autore maori dove il glossario era indispensabile. "Londonstani" è stato probabilmente pensato per un pubblico inglese che forse qualche conoscenza di base della cultura indiana ce l'ha. Tutti gli altri riferimenti alla cultura indiana, che risultano sconosciuti a chi non vi appartiene, secondo me sono voluti, per dare l'impressione che noi bianchi siamo estremamente lontani da questo tipo di cultura new-Indian. Alla luce del finale scioccante ha abbastanza senso.
    Sono contenta che "paki" sia rimasto tale, non saprei come tradurlo.

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  3. Infatti sì, paki non poteva essere cambiato, per il resto il glossario è fatto abbastanza bene. A dire il vero ci davo uno sguardo a inizio libro, poi la gran parte dei termini mi risuonava già nota ed era bello non dover andar ogni volta a ricercarseli. In ogni caso condivido, finale scioccante, vera sorpresa, che secondo me aumenta ancor di più il significato globale della storia.
    Paolo

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