W.H. Auden |
Mi è capitato una volta di ricevere una fotocopia durante una lezione universitaria e focalizzarmi sui margini del suddetto pezzo di carta. La pagina conteneva una poesia di W.H Auden scritta per la morte di William Butler Yeats, ma siccome si trattava appunto di una fotocopia tratta da un’antologia, vi compariva anche uno spezzone di un altro componimento, sempre di Auden, intitolato “Refugee Blues”. Il titolo ovviamente mi colpì molto più di quanto possa mai fare la solita elegia funebre, non tanto per il rimando musicale, ma per la pertinenza e l’attualità di tale argomento: i rifugiati. Quando lessi questo spezzone i barconi dei clandestini, soprattutto giovani tunisini che venivano a cercare una vita migliore, non cessavano di arrivare a Lampedusa e, da quanto apprendevo dalla televisione, alcuni migranti erano rimpatriati perché non avevano la possibilità di chiedere lo status di rifugiati. Il Ministro dell’Interno continuava a ripetere che, mentre la Libia era effettivamente uno stato in guerra, la Tunisia era uno stato pacifico, dove il dittatore era stato sconfitto ed era stato sostituito con un governo più democratico. C’erano anche dei “subsahariani”, come li chiama il telegiornale, in quei barconi, magari provenienti da quella Costa d’Avorio bistrattata di cui si sente parlare ogni tanto, ma sempre con distrazione, oppure dalla Somalia, paese perennemente in guerra, che non è neanche più un paese, se è per quello. La poesia recita:
Say this city has ten million souls,
Some are living in mansions, some are living in holes:
Yet there’s no place for us, my dear, yet there’s no place for us.
Once we had a country and we thought it fair,
Look in the atlas and you’ll find it there:
We cannot go there now, my dear, we cannot go there now.
In the village churchyard there grows an old yew,
Every spring it blossoms anew:
Old passports can’t do that, my dear, old passports can’t do that.
The consul banged the table and said,
“If you’ve got no passport you’re officially dead”:
But we are still alive, my dear, but we are still alive.[1]
Sono andata a cercarne il resto quindi. Di che cosa stava parlando Auden? Quali erano i rifugiati di cui stava parlando in modo così solidale? Quando ho trovato la poesia per intero ho scoperto che era stata scritta per i rifugiati ebrei negli anni ’30 del novecento, il che le dava tutto un altro aspetto, una patina di storia e una tonalità seppia a quella che io avevo immaginato come una poesia colorata dai drappi delle donne africane. Non che non sapessi che W.H. Auden non poteva aver scritto una poesia sui rifugiati attuali, poiché le migrazioni dall’Africa all’Europa per motivi economici sono iniziate molto dopo. Questa è quindi la forza della poesia: poetry does not grow ripe for us, we grow ripe for poetry, scriveva la poetessa indiana Kamala Das (‘la poesia non matura per noi, noi maturiamo per la poesia’). Noi maturiamo per una certa poesia, non è che la poesia cinquant'anni fa fosse diversa, ma oggi io sono particolarmente pronta a recepire empaticamente queste parole.
Pochi giorni dopo mi sono accorta che sul retro di quella pagina fotocopiata, c’era un’altra poesiola, anch’essa finita lì per sbaglio, schiacciata appunto tra le prime strofe dell’elegia a Yeats e gli ultimi versi di chissà quale poesia. Si chiama “Epitaph on a Tyrant” e la leggo oggi, quando dittatori che sedevano sulla loro poltrona di capi di stato da decenni sono stati spodestati e un altro di questi terribili despoti, Gheddafi, viene perseguitato dalle bombe, che ingiustamente colpiscono anche i civili, provocando ancora più profughi:
Perfection, of a kind, was what he was after,
And the poetry he invented was easy to understand;
He knew human folly like the back of his hand,
And was greatly interested in armies and fleets;
When he laughed, respectable senators burst with laughter,
And when he cried the little children died in the streets.[2]
Auden più di settant’anni fa descriveva quegli stessi meccanismi del potere che oggi ci lasciano perplessi, ci fanno arrabbiare, ci tormentano come tormentavano gli uomini a quel tempo.
Gregory Corso |
Per un puro esempio di serendipity, che è una delle benedizioni di un amante della letteratura, mi capita tra le mani una poesia di Gregory Corso, una delle sue più famose: “Bomb”. Dalla forma graficamente emblematica di fungo atomico, il lavoro del grande poeta della Beat Generation è un elogio alla bomba. A Corso sembrava infatti che la carica d’odio verso la bomba atomica che animava le proteste degli anni ’50 fosse un controsenso: perché la gente aveva così tanta paura di morire a causa della bomba e non in un incidente d’auto o sulla sedia elettrica? Certo, la sua provocazione non fu ben digerita dai pacifisti e, letta oggi, questa composizione suona oltremodo strana. Oggigiorno la gente non protesta, non più di tanto, per le bombe, definite intelligenti (ma quanto intelligente può essere una bomba?) e non certo atomiche, sganciate sulla Libia, e il terrore dell’atomica verrà forse debellato, almeno in Italia, da un referendum popolare guidato dalla paura. Ma è una paura legittima, perché in questo caso non è il nemico a minacciare di sganciarti l’atomica, ma il tuo stesso governo. La sua ironia sfacciata (‘The top of the Empire State / arrowed in a broccoli field in Sicily / Eiffel shaped like a C in Magnolia Gardens / S. Sofia peeling over Sudan’[3]), oggi è diventata amara, perché non è più paura di qualcosa di inverosimile, ma paura di qualcosa che è già successo: paura di verdure al cesio, di bambini dalla testa grossa e tonda come un pallone, con quattro braccia o senza gli occhi, come è successo a Chernobyl. Oppure paura dell’invasione dei profughi, causata dal tuo stesso uso scellerato delle bombe, non atomiche ma ugualmente ‘toy of universe / […] Death’s Jubilee’, cioè ‘giocattolo dell’universo, […] Giubileo di Morte’.
Gregory Corso si impegnava a non generare altro odio odiando la bomba, ma pensava che se queste bombe vengono gettate sul serio – per di più dai nostri connazionali e dai nostri alleati, mica da un nemico lontano, cattivo e sconosciuto – come accade in Libia o se la minaccia atomica è reale – come accade al giorno d’oggi con le centrali – questa poesia, questa presa in giro dell’odio innescato da coloro che si definiscono pacifisti, purtroppo assume una piega sinistra, quasi di sfottò nei confronti di quelli che le bombe ora se le sentono davvero sopra la testa, ad un passo da casa nostra per di più. “E’ responsabilità del poeta”, scriveva Grace Paley, “essere donna tenere d’occhio / il mondo e gridare come Cassandra, ma per essere / ascoltato questa volta”.
Ecco quindi che nel contesto odierno ho trovato una poesia perfettamente calzante e una fuori luogo, ma entrambe - per così dire - hanno contribuito ad un certo discorso che mi sto costruendo sulla validità (o sull'inutilità) della poesia in periodi di difficoltà, violenza e di spinta prorompente dell'attualità sulla produzione artistica.
[1] “Metti che questa città abbia dieci milioni di anime / Alcune vivono nelle ville, alcune vivono nei tuguri: / Eppure non c’è posto per noi, mia cara, eppure non c’è posto per noi. / Un tempo avevamo un paese e lo pensavamo giusto, / Guarda nell’atlante e lo troverai: / Non possiamo andarci ora, mia cara, non possiamo andarci ora. / Nel sagrato della chiesa cresce un vecchio tasso, / Ogni primavera fiorisce di nuovo: / I vecchi passaporti non lo possono fare, mia cara, i vecchi passaporti non lo possono fare. / Il console batté i pugni sul tavolo e disse, / ‘Se non avete un passaporto siete ufficialmente morti’: / Ma siamo ancora vivi, mia cara, siamo ancora vivi. (Traduzione mia)”
[2] “Perfezione, di un certo tipo, era ciò che cercava / E la poesia che inventava era facile da capire; / Conosceva la follia umana come il palmo della sua mano, / E si interessava molto di eserciti e flotte; / Quando rideva, senatori rispettabili scoppiavano a ridere, / E quando piangeva i bambini piccoli morivano per le strade.” (Traduzione mia)
[3] “La cima dell’Empire State / sfrecciata in un campo di broccoli in Sicilia / Eiffel a forma di C nei Magnolia Gardens / S. Sofia che si spella sopra il Sudan” (traduzione di Fernanda Pivano in Poesia degli Ultimi Americani).