Sunday, May 9, 2010

Slumdog Millionaire: spazzatura o capolavoro?

La mia prossima riflessione (ribadisco che io non scrivo quasi mai recensioni, ma riflessioni sui libri che leggo) sarà sul libro Le Dodici Domande di Vikas Swarup, autore che tra l’altro sarà anche al Salone del Libro di Torino. Le dodici domande (Q & A il titolo in inglese) è il romanzo da cui è stato tratto il film The Millionaire (Danny Boyle, 2008)*, che si è portato a casa ben otto premi Oscar, tra cui quelli importantissimi di “miglior film” e “miglior regia”. Prima di parlarvi del libro vorrei parlarvi del film e dei suoi pregi e demeriti.

Numerosi scrittori ed intellettuali indiani si sono espressi, favorevolmente e sfavorevolmente, nei confronti del film. Il commento più famoso è forse quello di Salman Rushdie , che ha ammesso di non essere un grande fan di Slumdog Millionaire, perché il film impila un’impossibilità dopo l’altra: due ragazzi degli slum che parlano un inglese perfetto, persino con inflessione londinese, e poi cadendo da un treno si ritrovano guarda caso di fronte al Taj Mahal, simbolo par excellence delle meraviglie indiane. I difetti del film, secondo Rushdie, derivano dal libro mediocre da cui è stato tratto. Secondo lui ci dev’essere un livello di plausibilità persino nel realismo magico. Detto da uno che ha scritto un romanzo su due attori il cui aereo scoppia in volo e dopo essere precipitati per migliaia di metri, non solo sopravvivono ma uno dei due poi diventa una specie di satiro con mezzo corpo caprino, è il massimo dello spasso. Non so se Rushdie abbia voluto essere ironico oppure se sentiva, come ho sentito io, che Slumdog Millionaire (e il libro da cui è stato tratto) non ha “deciso” chiaramente se vuole essere fantastico o realistico. Poi c’è tutta la questione della plausibilità de I Figli della Mezzanotte, percepito come fantastico in Europa e realistico in India. Molte persone che hanno letto I Figli della Mezzanotte si sono lamentate dell’implausibilità della storia, proprio come ha fatto lo scrittore anglo-indiano con il film di Danny Boyle. La mia risposta nel caso de I Figli della Mezzanotte è che la storia non vuole essere plausibile, e che il realismo non è per forza lo scopo primario che lo scrittore si prefigge. Si potrebbe dire la stessa cosa di Slumdog Millionaire, se non fosse che le sue implausibilità non hanno scopo. Mi spiego meglio: ne I Figli della Mezzanotte la vita di Saleem è un’allegoria della storia contemporanea dell’India. La sua telepatia e le sue conferenze con tutti gli altri bambini nati allo scoccare della mezzanotte nel giorno dell’indipendenza dell’India rappresentano gli sforzi dell’India post-indipendente di rimanere unita pur nella diversità dei suoi abitanti (per non parlare del fatto che tutto potrebbe semplicemente essere nella testa di Saleem, soluzione straordinaria per chi non ama il fantastico). Nel film di Danny Boyle, invece, le implausibilità non hanno scopo, come ho detto sopra. Per esempio, che Jamal, cresciuto in una baraccopoli di Bombay, parli inglese con inflessione londinese, è non solo improbabile ma anche insensato. Ci voleva tanto a scegliere un attore indiano (non me ne voglia Dev Patel, che mi è piaciuto tanto in Skins)? A mio parere è un grave errore da parte degli sceneggiatori (e dire che il film ha vinto anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale), che avrebbero potuto spiegare anche solo in trenta secondi perché Jamal parli così bene l’inglese (e infatti Swarup lo fa nel libro). Come spiega molto bene Arundhati Roy in questo articolo (tradotto anche da Internazionale nel marzo 2009), nella scena dell’interrogatorio, la sicurezza di sé emanata dal ragazzo torturato, palesemente britannico, initimidisce il poliziotto indiano, anche se è lui in realtà che lo sta torturando. Non si tratta di un problema di recitazione, continua Arundhati Roy, ma di uno squilibrio del PH della scena, un problema di “semiotica” aggiungerei io.

Un’altra critica fatta al film, specialmente dai nazionalisti indiani (ma quelli hanno da ridire su tutto), è che non è una bella immagine dell’India quella che è stata proiettata in migliaia di schermi in tutto il mondo. E’ un po’ lo stesso discorso che è stato fatto per Gomorra (o per Precious per quanto riguarda la comunità afro-americana). Secondo me è un discorso ridicolo: queste realtà esistono, anche se non sono molto spesso rappresentate al cinema. In altre parole, c’è anche un’India ‘not-shining’. Ma c’è chi ha fatto lo stesso lavoro molto meglio, Mira Nair in Salaam Bombay! per esempio, per cui non vedo niente di rivoluzionario in Slumdog Millionaire. La povertà e lo slum sono inoltre resi quasi glamour nella girandola di cose all-Indian del film (il call centre, il chai, il Taj Mahal, i gangster, i bambini mendicanti, le prostitute, i sari, la corruzione, il cricket e chi più ne ha più ne metta).

Il film ha anche dei pregi, per carità. E’ piacevole, una ‘feel-good comedy’, in fin dei conti. E’ ‘visualmente eccellente’, come l’ha definito Rushdie, e ‘girato bene’, come ha ammesso la Roy. Ha una bellissima colonna sonora (di A.R. Rahman, un maestro), una fotografia impeccabile, un ritmo incalzante ed è un trait d’union simpatico e azzeccato tra i film di Bollywood, escapisti ed irreali fino all’eccesso, e i film occidentali più impegnati. Non è il capolavoro del secolo - d’altronde si sa che i film premiati agli Oscar non lo sono mai – ma è godibile e fruibile soprattutto per quella fetta di pubblico per cui, volente o nolente, questa sarà l’unica escursione cinematografica in India.



* In italiano hanno inspiegabilmente tolto il neologismo ‘slumdog’ dal titolo. L’espressione ha causato polemiche in India, in quanto è un termine dispregiativo, seppur inventato, nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ‘slum’, i quartieri più poveri delle metropoli indiane. Tradotto letteralmente ‘slumdog’ significa più o meno ‘cane dei bassifondi’.

3 comments:

  1. Bel post, Stefania!
    Per me, né spazzatura né capolavoro. D'altra parte la maggior parte dei film e dei libri non rientrano in nessuna delle due categorie. Qui è diventato importante discuterne perché ha vinto tutti quegli oscar...
    Penso che il successo del film sia andato oltre le iniziali aspettative e questo sia causa delle polemiche.

    L'implausibilità per me è il bello della letteratura. E' vero che qui non serve come nei Figli della mezzanotte (fra l'altro: i figli della mezzanotte è veramente un capolavoro, questo è un libro carino e piacevole, ma non aspira neanche a essere un capolavoro... però Rushdie è abbastanza odioso a dire ciò che ha detto).

    Ma ha anche qui un valore simbolico: il Taj Mahal è il simbolo dell'India, non è un caso che ci si ritrovino sotto...
    E' del tutto implausibile anche che sappia tutte le risposte, ma in questo c'è proprio tutta la costruzione letteraria della vicenda.
    Sono d'accordo che potevano mettere un attore con accento indiano o spiegare perché parlasse bene inglese (tra l'altro, avendolo visto doppiato al cinema, non me n'ero accrota!).

    Quello che secondo me è mancato nel film è quel tono ironico/cinico che pervade il libro, che forse lo avrebbe distinto da altri film che dipingono la povertà indiana.

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  2. Sono d'accordo con te. Rushdie probabilmente è anche un po' geloso perché dai suoi libri non sono riusciti ancora a fare nessun film (la versione cinetematografica de "I Figli della Mezzanotte" è sempre in lavorazione ma non esce mai!). Il libro non aspira ad essere un capolavoro e il film non meritava tutti quegli Oscar. Dal punto di vista narrativo l'idea di Swarup delle dodici domande a cui per caso/destino Jamal/Ram Mohammad Thomas sa rispondere è molto buona, e infatti ne parlerò quando scriverò del libro. Anche per "Slumdog Millionaire" non si voleva essere plausibili e infatti non obietto al fatto che lui sappia le risposte.

    Sì, il Taj Mahal dove approdano i due fratelli è il simbolo dell'India. Più che altro dell'India turistica, dell'India come la vediamo noi occidentali nei brochures delle agenzie di viaggio. Non è un caso che i due finiscano lì, ma è come impilare l'ennesimo tassello del mosaico stereotipi indiani ad uso occidentale. S'infila nell'ottica postmoderna di infilare tutta l'India in due ore di film, di mostrare al pubblico occidentale quello che si aspetta di vedere riguardo all'India (se non vede il Taj Mahal non ha visto l'India). Sono d'accordo, ma mi rimane l'amaro in bocca. SDM rimane un film che mi è piaciuto, è furbetto, è divertente, ma gli manca qualcosa.

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  3. Hai proprio colto nel segno, sopratutto riguardo al realismo dei Figli della mezzanotte e la sua opinione sul libro-film. A me personalmente è piaciuto molto più il libro...che non ha pretese ma è scritto bene, con buoni intrecci.

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