Sunday, January 2, 2011

No glossary please!





A few weeks ago I posted a poll that asked “When reading an ‘ethnic’ novel (Indian, African, South American) do you prefer a glossary or do you like working out the meaning of the new words by yourself?”. No need to say that the word “ethnic” is misleading, tricky and ugly. What is ‘ethnic’ to me is not ethnic to you, if you’re a reader from across the ocean. I’ve recently learned that an Italian like me is ‘exotic’ to a (WASP) American. ‘Ethnic’ originally means something related to a population subgroup with a common national or cultural tradition, but we don’t consider our (read Western) culture as ‘ethnic’. This means that any ‘other’ literatures/cultures are ethnic. ‘Ethnic’ has thus become a synonym of ‘non Western’. I simply used the word ‘ethnic’ in my poll because I didn’t have much words to explain myself, the poll having a strict limit of words in this blog template.


The results of the poll: 57 % of voters opted for a glossary, 14 % think books are better without glossaries and 28 % are unsure. If I’d actually answered my own poll, my opinion would be the third, “Unsure”, but verging towards the second answer, “no glossary please”. I’ll try to explain why. Let’s pretend I’m writing a novel in English. I’m an Italian, so of course I’ll use some words related to my culture. I will not constantly think “Oh, wait, what would a Malaysian reader understand if I use the expression spaghetti alla carbonara, or commedia dell’arte?” I really need to say that to explain what I ate tonight or to define a certain action. I remember a French sports reporter commentating about an Italian footballer simulating a foul with “Voilà, de la commedia dell’arte”. How else would I write that if not using the Italian word?


Of course it’s something entirely different if I write about a mafioso who loves eating pizza while he’s playing on his mandolino and at the end of the meal he drinks a nice espresso while he’s sitting at a café and staring at the nice piazza in front of him and then he gets an invitation to an opera, but the azzurri are playing at the same time so he decides not to go. That’s spreading a thin layer of neo-exoticism on the book by using a lot of foreign words.
But let’s go back to ‘voilà de la commedia dell’arte’. Would I need a note or a glossary entry in my novel, which is going to be read by non-Italian speakers (since I wrote it in English it’s difficult to avoid)?
Jonathan Beckman in The Guardian’s Book Blog, writes about Howard Jacobson’s “The Finkler Question” (the book has won the Booker Prize this year):

Jacobson is not alone in his reliance on cliché. It occurs in so much fiction about ethnic cultures, whether set in South Asia, the Far East, North Africa or elsewhere: the sprawling, bickering families; the cooking smells; the riots of colour; mangoes, bloody mangoes. Publishers seem to encourage novelists to produce guidebooks (as long as they don't upset too many preconceptions) rather than works of literature. Such works are easily identified by the pile-up of italicised foreign words coupled to their translations. (Want to know what a feygeleh is? Turn to p160 of “The Finkler
Question”. How about a mamzer? It's on p174) It's a shame when a novel aspires to be a glossary. Critics – especially metropolitan ones – must be more sceptical when they find such books confirming what they think they already know.



I don’t quite agree with Jonathan Beckman, for all that matters. There are bloody mangoes in India, as they are bloody spaghetti alla carbonara in Italy. I think the book shouldn’t give explanations of what things are or give couple translations in the text, because that would indeed look like a guidebook (a guidebook to Jewishness, a guidebook to Indianness etc). It’s not much different for the paratext, especially for glossaries. They also give the idea that the book is a National-geographic reportage or a ‘Insert-culture-here-ness for Dummies’. In the case of ‘ethnic’ (here again, I can’t find a better term) novels, either the writer steps towards the reader, or the reader steps towards the writer, trying to understand a foreign culture, eventually looking up the words in the dictionary or googling them. Nonetheless, these novels need to use foreign words in order to be perceived as “authentic” (my novel with people eating Yorkshire pudding wouldn’t work). Personally, I don’t want my novels to be thought for us, Westerners. I don’t want to be fed with a spoon by an Indian writer because I’m not supposed to know what a bindi is (though, I know). I prefer to be lost in the labyrinths of literature. Eventually, I could use a foreword to the novel that explains relevant cultural background, but I am almost irritated by glossaries (almost inevitable in Italian, a bit passé in English I must say), which domesticate literature for the consumption of Western culture.

Not having glossaries keeps the thrill of exploring another culture, of trying to understand it without mediations. In my opinion, something can be gained also by not having glossaries.

6 comments:

  1. Io ho votato il tuo sondaggio e appartengo alla minoranza del "no glossary please"!

    Io spesso però consulto il glossario (quando c'è) alla fine della lettura, per vedere che cosa ho imparato a posteriori, una specie di conferma finale più che un dizionario da consultare mentre leggo. Perché in genere le parole si imparano leggendo, si capiscono dal contesto, se non la prima volta, almeno dopo un po' di volte che ricorrono.

    Invece sento spesso le rimostranze di molti lettori, che si incazzano perché un libro contiene troppe parole "etniche" (a questo punto chiamiamole così!) e loro sono costretti ad andare avanti e indietro ed interrompere la lettura, perché non possono andare avanti senza conoscere il significato di una parola.

    Io leggo in modo totalmente diverso, cioè mai interromperrei la lettura, piuttosto rimango con il dubbio (in genere poi mi si risolve).

    In quanto alla quantità di termini etnici, ci sono autori che ne mettono anche molti, ma perché descrivono nei dettagli le situazioni, non per creare situazioni volutamente esotiche.

    Comunque la cosa peggiore è che l'autore ti metta una spiegazione nel testo, appunto come dici tu per farti un po' da guida turistica.
    Nel libro che sto leggendo, ieri ho trovato: "una tazza di chai, il tè speziato". Sono inorridita, ormai che cosa sia una tazza di chai lo sa anche mia nonna.

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  2. Leggendo un libro di teoria postcoloniale ho trovato conferma che i glossari nei libri in inglese sono ormai passati di moda, come avevo osservato io. Noi italiani invece ci ostiniamo a inserirli anche quando l'autore originariamente non ne aveva pensato uno.

    Io credo che qualche scrittore particolarmente sensibile alla questione dell'uso della lingua inglese usi molte parole "etniche" anche per affrancarsi dall'inglese che un tempo era considerato corretto e anche per coprire la distanza verso la lingua locale, che sia malayalam o yoruba. L'esempio che ho riportato io (quello pizza e mandolino) serviva a simulare quanto ridicolo possa essere in realtà un libro "esoticizzato", anche se noi non sempre ce ne accorgiamo. Volevo accatastare termini italiani in un crescendo di banalità e stereotipi per dare l'idea.

    Sono d'accordo che le traduzioni che recitano "il chai, il tè speziato" andrebbero abolite, o meglio lasciate per i libri "guida turistica" tipo "No.1 Ladies' Detective Agency" di McCall Smith o "Agenzia Matrimoniale per Ricchi" (che per carità, sono carini ma fungono appunto da "guida turistica" sotto le mentite spoglie di un romanzo).

    Una soluzione alternativa, adottata per esempio da "Sea of Poppies" di Ghosh (almeno per l'edizione inglese, non so com'è andata per quella italiana), è un dizionario molto specifico sul sito internet del libro, per i più pignoli (dizionario che, mi sembra di capire, gioca anche con la finzione narrativa). Ironicamente uno scrittore potrebbe creare contiue voci di glossario ridondanti in un intento postmoderno di esasperare questa prassi.

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  3. Sì, pensavo proprio a Ghosh, anche se penso che il suo caso sia il più estremo possibile, in quanto la lingua in Mare di papaveri è volutamente intessuta di termini delle lingue più disparate e diventa quasi un messaggio, quello della mescolanza, di cui in effetti la trama e i personaggi raccontano.
    Anche l'edizione italiana è senza glossario e si rimanda al sito. Fra l'altro non ha voluto neanche mettere il corsivo alle parole non inglesi per non distinguerle dal resto.
    Però è una scelta d'autore, dettata dal fatto che non vuole necessariamente che si capisca tutto, ma creare un "rumore di fondo".

    Per altri autori può essere diverso, ci possono essere modelli diversi di scrittura e di uso di parole "etniche" (intendo buon uso, non creare un'atmosfera fintamente esotica come il tuo bellissimo mafioso con il mandolino!). Per certi autori meno recenti, addirittura non è detto che fossero romanzi pensati per un pubblico occidentale o "globale".

    Altra cosa: altra tendenza di tipo guida turistica è quella di inserire ricette di cucina... non solo lonely planet ma pure libro di ricette!
    In certi casi potrebbe anche avere un senso, tipo questi nuovi libri dal titolo (italiano) etnicissimo che sono usciti tipo Mango, curry e souvenir (ma non lo so perché non li ho letti), ma per esempio le ricette di cucina alla fine di Cuccette per signora proprio non c'entrano niente se non a ribadire lo stereotipo della donna infelice ma creativa in cucina...

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  4. Non ricordavo ci fossero le ricette alla fine di "Cuccette di Signora". Beh, più "etnico" di così?

    Comunque sono d'accordo con tutto quello che hai scritto. Ci sono vari modelli di scrittura e vari tipi di pubblico a cui pensava l'autore.

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  5. Ciao, vengo dal blog di Silvia, molto interessante anche il tuo blog. Io mi dedico (amateur!) alla letteratura indiana (e indiana in inglese) da qualche tempo. posto che concordo sulle forzature, o sulle pennellate folkloristiche inutili e fini a se stesse, io, grazie anche ai bollywood, qualche parola di uso comune ormai l'acchiappo. però di recente ho letto un libro, non ricordo quale ma ci risalgo, per il quale un glossarietto sarebbe davvero stato utile! era infarcito di termini che a volte rendevano un po' difficile la comprensione.. e poi, ma questa è una cosa personale, io sono assai curiosa di parole, anche esclamazioni o modi di dire non strettamente attinenti al significato del romanzo. PS silvia, non sono sicurissima che tutti sappiano cos'è un chai ... ;-D no offence, hope my words don't annoy you!

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  6. @Anto61: Benvenuta nel mio blog! E' un dilemma a cui non si può dare risposta: c'è chi sta bene non sapendo esattamente che cosa un personaggio stia mangiando o indossando e chi è più curioso e vorrebbe sempre il glossario alla fine del libro.

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