Friday, November 20, 2009

34. “Due volte” di Jadelin Mabiala Gangbo




Anno di prima pubblicazione: 2009
Genere: romanzo
Paese: Italia

Il libro è edito dalle Edizioni e/o (€16).

Trama: Due gemelli rasta di origine beninese, Daniel e David, crescono in un istituto di suore vicino a Bologna, insieme a compagni di avventure e disavventure dal passato difficili: c’è Pasquale, piccolo camorrista di origine napoletana, che legge poesie e le vuole scrivere sui muri nonostante il divieto delle suore, e poi c’è Agata, che è stata “sputata” dallo zio, o almeno così capisce Daniel. Il tutto ambientato nell’Italia degli anni ottanta, tra una partita a Subbuteo e una gita al negozio di giocattoli per comprare, con i soldi risparmiati, i tanto agognati transformers.

Qualche pensiero: Dalla recensione di Michael Braun della Tageszeitung uscita su Internazionale (n.813, settembre 2009):
“[…] l’autore ha scelto di raccontare la storia con gli occhi e le parole del bimbo di dieci anni, frugando fin troppo nei suoi ricordi. Il risultato è un romanzo dal linguaggio eccessivamente semplice che alla lunga stanca, prolisso in molte descrizioni a scapito dell’intensità di una storia che riesce solo in parte a essere un romanzo di formazione. Bellissimi i ritratti dei due compagni di sventura […]. Dal libro non emerge che il bambino è nero, a parte qualche disquisizione sui capelli. Chi si aspetta un racconto sulla vita di un bambino africano in un paese bianco rimarrà deluso.”
Sono in parte d’accordo con queste critiche al libro: ci sono un paio di cose che non mi hanno convinto e ha ragione Michael Braun a pensare che l’autore avrebbe dovuto lasciare più spazio alle storie dei compagni dei due protagonisti, che sono molto toccanti anche attraverso il filtro dell’ingenuo narratore. Mi è piaciuto, tuttavia, il fatto che queste storie fossero fatte intuire e non raccontate esplicitamente, viste con gli occhi di un bambino che non le capisce fino in fondo o non gli dà troppo peso. Non ci è dato sapere, infatti, chi fosse in realtà lo “sputatore” della bambina Agata, o come un bambino napoletano è finito in un istituto di suore bolognese.
La semplicità del linguaggio non mi ha dato fastidio, anzi; Daniel ha pensieri originali e il modo di vedere le cose di un bambino di dieci anni è sempre interessante e divertente (e Gangbo riesce bene nell’impresa di creare un narratore-bambino, con storpiature di parole e pensieri dissacranti). Tuttavia, i continui riferimenti alle marche di giocattoli o di vestiti che andavano di moda negli anni ottanta alla lunga stancano: forse nei coetanei dell’autore evocheranno anche una forte nostalgia, però nel resto dei lettori (e io ho solo sette anni in meno dell’autore!) servono solo a sottolineare eccessivamente l’ambientazione italiana del libro e “l’italianità” dei due gemelli, che pur essendo di origine africana sono culturalmente italiani. David e Daniel sono per altro un ibrido: 100 % italiani ma anche africani (con le seconde generazioni della migrazione la matematica non funziona). L’influenza che ha la cultura rastafari trasmessagli dal padre, che loro credono in prigione, c’è, ma è una cosa che tengono per sé. Daniel e David sono alla ricerca del “cuore nero”, anche se non sanno bene che cosa sia, e ricordano con nostalgia quando il papà gli faceva ascoltare la musica di Bob Marley e Linton Kwesi Johnson, raccontandogli della corruzione di Babilonia. In realtà, il fatto che i due bambini siano neri non influisce molto sulla storia, a parte, appunto, qualche disquisizione sui capelli. Forse l’autore ha cercato di spiegarci che ci possono essere storie con protagonisti appartenenti a minoranze senza che queste storie vertano per forza sul dilemma dell’identità o sull’avversione per il diverso*. D'altronde, il fatto che i due gemellini siano di origine beninese, e non congolese come l'autore, avvalora la tesi che l'etnicità non sia fondamentale all'interno della storia. L’autore, infatti, rigetta l’etichetta di “scrittore migrante” e preferisce quella più semplice e “non ghettizzata” di scrittore (vedi quest’intervista).
Detto questo, mi è sembrato che la mancanza di riflessioni da parte del narratore-bambino su questi temi o la mancanza di reazioni e giudizi sulle origini africane dei bambini togliesse autenticità alla storia. A togliere ulteriore autenticità alla storia, a mio parere, è l'improbabile religione dei gemelli, il rastafarianesimo.
In conclusione, ho trovato stimolante la storia, ma avrei accantonato qualche marachella probabilmente autobiografica, che oltretutto rischia di ridurre il libro ad una mera serie di episodi, e sviluppato maggiormente le storie di vita dei bambini dell'istituto.

Sull’autore: Jadelin Mabiala Gangbo è nato nel 1976 nella Repubblica Popolare del Congo ed è in Italia da quando aveva quattro anni. Cresciuto tra Imola e Bologna, ora vive a Londra. Ha pubblicato i romanzi Verso la Notte Bakonga (1999) e Rometta e Giulieo (2001), versione contemporanea della tragedia di Shakespeare con protagonisti una giovane studentessa e un consegnapizze cinese.

* Ricordo di aver riflettuto su questa possibilità guardando Radiance di Rachel Perkins, un film australiano con tre protagoniste aborigene.

4 comments:

  1. Sono stata tentata da questo libro più volte in libreria, poi però ho sempre resistito alla tentazione (a favore di altre tentazioni di libri vicini)...

    Per me è importante che una storia raccontata da qualcuno abbia anche traccia del suo linguaggio.
    Certo, è difficile raggiungere un buon equilibrio fra linguaggio autentico e leggibilità.

    Sono d'accordo nell'evitare le varie etichette che definiscano gli autori, e in generale anche i generi letterari. C'è però chi con queste etichette ci gioca parecchio (per esempio io odio la parola "etnico"...)

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  2. Io invece sono caduta in tentazione, forse perché avevo letto altri romanzi sull'Italia "multietnica" e mi erano piaciuti molto, anche per la loro lingua spigliata, così diversa da quella ingessata che troppo spesso si legge ancora nella letteratura italiana contemporanea.

    Gangbo fa un lavoro non indifferente con il linguaggio, per esempio ho letto che in "Rometta e Giulieo" ricrea una lingua arcaica per la trasposizione in salsa moderna della tragedia shakespeariana. Per qualche motivo però in questo romanzo c'è qualcosa che non funziona, appunto l'equilibrio non c'era.

    Proprio accanto all'articolo su "Hotel Calcutta" che ti ho segnalato ce n'era un altro che disquisiva sulla cosiddetta "letteratura etnica", la cui percezione cambia se ci spostiamo geograficamente. Sono rimasta stupita nell'apprendere che per un mio amico americano io, italiana, sono esotica e quindi un Calvino o un Pirandello per un americano è "letteratura etnica"!

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  3. D'altra parte per gli americani siamo un po' esotici, al di là della letteratura, me ne sono resa conto quanto sono stata per un periodo in una famiglia americana: si immaginavano che vivessimo in un'Italia perennemente anni '50, tipo spaghetti e mandolino, non scherzo...
    E anche per i tedeschi siamo un po' esotici, cioè arretrati, etnici, mediterranei, quasi tribali...

    Quindi anche nei libri ricercano e trovano gli stereotipi che hanno già in mente, anche quando non ci sono (come d'altra parte facciamo noi con le altre nazionalità).

    Secondo me la letteratura "straniera di paesi non occidentali" (vuol dire questo "etnica"?) fa bene proprio quando riesce ad andare oltre gli stereotipi.

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