Saturday, May 29, 2010

Vikram Seth @Teatro Malibran



Ormai la presenza di scrittori indiani alla manifestazione letteraria Incroci di Civiltà è consolidata. Dopo aver avuto Salman Rushdie, Anita e Kiran Desai, quest’anno è toccato a Vikram Seth, autore del “librone” – come lo chiama lui usando la parola italiana – “Il Ragazzo Giusto”. 1600 pagine in cui Rupa Mehra, la madre di un giovane chiamata Lata, deve trovare un buon partito per sua figlia tra i numerosi corteggiatori. Sullo sfondo la città immaginaria di Brahmpur nel 1952, alla vigilia delle prime elezioni dopo l’indipendenza ottenuta pochi anni prima.
L’autore stesso confessa che in partenza pensava ad un libro sulle trecento pagine, ma che poi è stato preso dalla foga della scrittura e dai personaggi e ne è uscito questo “malloppone”, che nonostante sia uno dei libri più lunghi mai pubblicati in un singolo volume – per lo meno in lingua inglese – è un romanzo molto amato dal pubblico. Per giustificarne la lunghezza Seth ci parla di “Anna Karenina” di Tolstoj, altro libro piuttosto lungo – spesso offertoci in due volumi – che egli sicuramente ammira: in quel magnifico libro, infatti, si impara persino come fare la marmellata di fragole. Sono i dettagli che contano, secondo Seth. Non per niente è stato descritto come uno scrittore di “qualità ottocentesca”, pensando proprio a giganti come Tolstoj o Dickens, che hanno fatto dell’attenzione ai dettagli la loro fortuna (non che basti quella, sia chiaro!).
E’ un approccio alla letteratura che va a genio a Seth, che confessa di non aver fatto il percorso usuale dello scrittore che studia tutta la storia della letteratura prima di iniziare a scrivere. Egli è infatti un economista per formazione. Sarà pure un economista – a cui importano, per sua stessa ammissione, le cose della vita reale come l’amore, l’odio o l’ambizione – ma nelle sue risposte e nelle sue lettura c’è un’arguzia non indifferente. Seth, che ha già scritto un romanzo parzialmente ambientato a Venezia (“Una Musica Costante”), è stato invitato dalla Fondazione Musei Civici ad essere quello che in Inghilterra verrebbe chiamato “writer in residence”, cioè a fermarsi per qualche settimana o qualche mese nella città lagunare per scrivere sul patrimonio museale cittadino, che come si sa è molto ricco. Ci legge una poesia monosillabica dedicata a Venezia, ispirata alla poesia cinese (lingua in cui un monosillabo, a seconda del tono, può cambiare radicalmente significato). Da notare che in inglese, a differenza che in italiano, una poesia composta interamente da monosillabi è possibilissima da comporre, tanto più che la frase della letteratura inglese più famosa al mondo è composta da monosillabi: “to be or not to be”. Oppure pensate alla famosa elegia di Chidiock Tichborne: “My prime of youth is but a frost of cares, / My feast of joy is but a dish of paine: / my crop of corne is but a field of tares, / and al my good is but vaine hope of gaine. […]”.
Seth dimostra di conoscere bene anche la letteratura italiana, dichiarando di amare Leopardi e di comprendere la sua poesia e di amare Venezia, di conoscerla anche piuttosto bene, notando come agli indiani riesce bene il dialetto veneziano perché ha la stessa “erre arrotolata” (e ce ne fa un divertentissimo esempio). Ecco che quindi l’incontro non è caduto nello stereotipo, nella banalità di considerare uno scrittore indiano solo per la sua “indianità”, per il suo essere esotico in altre parole. Vikram Seth è apparso distantissimo da ogni “esotismo”, e da ogni eccessivo “intellettualismo”, rimanendo comunque sempre acuto e divertente nelle sue osservazioni. Da ultimo ci legge alcune poesie ispirate agli elementi, che per lui sono sette: terra, acqua, fuoco, aria, spazio, legno e metallo (questi ultimi vengono dalla simbologia cinese). Si rivela quindi anche un poeta sopraffino, recitando le poesie con una foga e una passione che causano uno scroscio di applausi.
Ci lascia assicurandoci (ma molti lo sapevano già!) che sta scrivendo il seguito de “Il Ragazzo Giusto”, ambientato ai giorni nostri, quando Lata ha già ottant’anni e sta cercando la ragazza giusta per il nipote. S’intitolerò ovviamente “La Ragazza Giusta” e probabilmente sarà anch’esso un “librone”. Con riferimento alle critiche, benevole o malevole, che riceve dalla stampa Seth cita Aarthur Conan Doyle, che in una sua poesia intitolata “Advice to a Young Author” dalla collezione “Songs of the Road” scrive :“Critics kind / Never mind! / Critics flatter, / No Matter! / Critics Curse / None the worse. / Critics blame, / All the Same!”.

Wednesday, May 26, 2010

6. “Burnt Shadows” by Kamila Shamsie



Year of first publication: 2009
Genre: novel
Country: the author is Pakistani, but the novel is set in many countries (Japan, India, Pakistan, USA and Afghanistan)

In italiano il libro è stato tradotto con il titolo Ombre Bruciate ed è edito da Ponte delle Grazie.La mia recensione è uscita, in italiano, sulla rivista culturale Paper Street ed è disponibile a questo link. Come al solito, vi offro ulteriori riflessioni sul libro, in lingua inglese.

Hiroko is a young woman from Nagasaki whose dreams for the future are swept away when the atomic bomb is dropped in her town. She loses virtually everything: her relatives, her fiancé and her home country. What she gets in exchange for that is a burning on her back shaped like the three-crane pattern of her kimono. She asks for shelter in Delhi, where the English relatives of her departed German fiancé live. Here she meets Elizabeth Burton née Weiss with whom she’ll become life-long friends and Sajjad Ashraf, a Muslim employee of the Burtons whom she will later marry, defying all conventions. Partition catches them while they’re on honeymoon abroad and, unable to go back to Delhi, they set off for Karachi, then the capital of the newly-born state of Pakistan. The story goes on with the children of the two families. Raza, Hiroko’s son, finds out that he’s a stranger in the town where he grew up. His peculiar features (he’s half Japanese and half Indian) and gift for learning languages allow him to pass for a Hazara and cross the border to Afghanistan, where the mujahideen are fighting their endless war. The novel starts with a detonation, that of the atomic bomb in Nagasaki, and towards the end comes to another detonation, that of 9/11. Harry is Elizabeth’s son, who grew up first in Delhi and then in New York. He still has strong links to that part of the world and in fact he goes back there several times a year, without letting his mother know that he is in a war area. In the meantime, his own country, has become a place where Muslim people are considered a possible threat.
What I’d like to point out here is that I think that Kamila Shamsie re-elaborates the work of different authors. The episode where Sajjad is accused of having molested Hiroko and is sent away by the Burtons is reminiscent of A Passage to India by E.M. Forster, where Dr. Aziz, also a Muslim acquainted with English people and also quite a charming man, is accused of having molested Miss Quested. That Sajjad and Hiroko end up having a very happy marriage demonstrates that, had Miss Quested overcome her prejudice for Indian men, she could have loved Dr. Aziz (in my opinion she did like him, albeit unconsciously). That Hiroko is a Japanese woman and not an English one, though, hints at the fact that only a woman coming from a completely different background, not Westerner and not Indian, could have done that.
This book is about fluid identities, loss and the feeling of being a stranger in a place that you considered your home. The latter is a theme that many Indian writers have tackled before: the first who comes to mind is Anita Desai. Kamila Shamsie, though, develops her own style and shows her own skills as a tremendous story teller. Burnt Shadows, ambitious and epic in scope, has wonderful characters and beautiful descriptions. A minor flaw could be that there is too much difference between a first part peppered with lyrical writing and insights into the characters and a second part, set on the border between Pakistan and Afghanistan, that suspiciously resembles a lightweight thriller.


About the author: Kamila Shamsie was born in Pakistan in 1973 into a family of writers and journalists. Her first book was In the City by the Sea (1998), followed by Salt and Saffron (2000). Her third novel, Kartography (2002), was published to widespread critical acclaim. Burnt Shadows, her fifth novel to date, was short-listed for the Orange Prize for Fiction. Kamila Shamsie is also a columnist, primarily for The Guardian.

Monday, May 24, 2010

MOSAICO INDIA

Alka Saraogi, Tishani Doshi e Antonio Franchini conversano con Anna Nadotti nell'ambito della manifestazione Incroci di Civiltà
Auditorium Santa Margherita, Venezia, 20 maggio 2010

L’incontro parte dalla consapevolezza che l’India è come un mosaico composto da tantissime tessere, tutte molto diverse una dall’altra, ma che se guardate da lontano compongono un’opera d’arte chiamata India. D’altronde è lo stesso concetto espresso da Sudhir Kakar quando gli viene chiesto di presentare il suo libro “Gli Indiani”, solo che la sua metafora era un bosco, dove non bisogna guardare tanto gli alberi ma allontanarsi per riuscire ad averne la visione d’insieme (come in un quadro di Seurat aggiungerei io). Ecco quindi che la moderatrice dell’incontro, Anna Nadotti, traduttrice di innumerevoli romanzi indiani scritti in inglese, cita Roberto Rossellini, che visitò l’India e ne fece un celeberrimo documentario: “L’India è uno stomaco enorme con un’enorme capacità di digerire”, perché ha digerito tantissime religioni, culture e filosofie.

La conversazione avviene tra tre scrittori molto diversi tra loro, con un filo conduttore che li unisce, quello del viaggio. Alka Saraogi, nata a Calcutta nel 1960, scrive in hindi. Si presenta con una bellissima sari fucsia e un bindi sulla fronte, nonché un sorriso molto dolce. Due dei suoi libri sono stati tradotti in italiano: “La Storia di Ruby Di” (Neri Pozza, 2004) e “Bypass al cuore di Calcutta” (Neri Pozza, 2007). Proprio da quest’ultimo sono state tratte le letture proposte durante l’incontro. Il romanzo è ambientato a Calcutta, dove Kishor Babu, dopo un’operazione di bypass al cuore, inizia a girovagare per le viuzze della città a piedi, frequentando quartieri che prima non si sarebbe neanche sognato di visitare, dove “decine di uomini si accucciano con la faccia contro un muro per urinare o sono intenti a mangiare riso-uova, riso-pesce, riso-legumi seduti in fila su una panca, senza girare mai il viso a destra o a sinistra, per parlarsi o guardarsi?”. Quello di Kishor Babu, quindi, è un viaggio fatto senza prendere aerei, solo con i propri piedi, all’interno della propria città. Egli, appartenente alla comunità Marvari composta da ricchi mercanti e uomini d’affari, inizia ad aggirarsi nella zona nord di Calutta alla ricerca delle radici familiari, che affondano appunto nella parte “indigena” e più povera della città. Con molta ironia e linguaggio tagliente, Alka Saraogi affronta i viaggi di una nazione, di una società, attraverso la topografia di una città.

Tishani Doshi, classe 1975, è nata a Madras da padre indiano e madre gallese. Prima di tutto poetessa, ma anche ballerina (ha lavorato con la famosa coreografa indiana Chandralekha) è ora autrice di un romanzo, “Il Piacere Non Può Aspettare (Feltrinelli, 2010). E’ bellissima, vestita in un tailleur blu che fa da controparte alla sari di Alka Saraogi. Le due anime dell’India in bilico tra tradizione ed innovazione (ma che convivono, Tishani confessa infatti di mettere anche la sari). Esse appartengono a due diverse generazioni e scrivono anche in lingue diverse: Tishani infatti ha scelto di usare la lingua inglese per esprimersi. “Il Piacere Non Può Aspettare” indaga un po’ sulla storia familiare della scrittrice stessa, perché i protagonisti sono Babo, un indiano che vola a Londra per lavoro e s’innamora di Sîan, una ragazza gallese. I due creano così una famiglia multietnica, ma stranamente decidono di farlo in India e non in Inghilterra. Troppo facile forse etichettarlo come il “White Teeth” indiano e ancora più facile insinuare che Tishani Doshi, perché bella non sappia scrivere poesie (come ha fatto recentemente “Il Giornale” in un articolo orrendo che ha anche confuso Anuradha Roy con Arundhati). Ad ogni modo, il romanzo è il tentativo di raccontare anche i viaggi dall’occidente all’India, oltre che quelli opposti dall’India all’occidente, ormai abusati in letteratura (un paragone che mi esce spontaneo è con “Notte e Nebbia a Bombay” della Desai dove c’è lo stesso viaggio “inverso”). Gli odori, i profumi e i colori descritti da Tishani Doshi, quindi, non sono solo quelli dell’India, descritti milioni di volte, ma anche quelli del Galles. D’altronde anche l’Europa ha un odore (in un post di mille anni fa scrissi che per me l’Inghilterra odora di una stanza non arieggiata, cibo fritto e curry, o una cosa del genere). Quello di Tishani è un viaggio “affettuoso” nella storia dei suoi genitori, facendo la spola tra India e Galles, perché una persona forse può avere “case multiple”.

Il terzo scrittore presente, Antonio Franchini, ha recentemente pubblicato “Signore delle Lacrime” (Marsilio, 2010), un romanzo autobiografico riguardante un suo viaggio in India, che allaccia impressioni sul subcontinente a ricordi di vita italiana (partenopea in particolare). L’autore ci fa presente un parallelismo inquietante tra i cosiddetti cantanti neo-melodici napoletani e quelli di Bollywood e tra il caos, il rumore e l’odore dell’India e gli stessi elementi nella realtà cittadina napoletana. La mediatrice chiede quindi alle due scrittrici indiane se anche per loro ci può essere un collegamento, un feeling tra Italia ed India ed entrambe rispondono che sì. Ma i collegamenti fra civiltà si possono fare in tutti i casi, perché in fondo siamo tutti esseri umani con grossomodo le stesse esigenze. L’importante, dice Tishani Doshi, è non pensare che lo scrittore possa diventare portavoce di tutta una nazione, nelle sue infinite luci ed ombre. In altre parole, come può uno scrittore descrivere tutte le tessere del mosaico? Al massimo può dipingerne una, quella che meglio conosce, che sente più sua.

Wednesday, May 19, 2010

Italia e Corno d’Africa: “Regina di Fiori e di Perle” di Gabriella Ghermandi

Oggi è cominciata Incroci di Civiltà, una manifestazione letteraria veneziana che già da qualche anno ha portato in laguna diversi scrittori provenienti da tutto il mondo (l’anno scorso per esempio c’è stato Salman Rushdie, ne ho scritto qualcosina qui). In questa edizione, tra gli altri, Vikram Seth, Jeanette Winterson e Tiziano Scarpa. Non mancherò ovviamente di parlare degli incontri a cui assisterò.

Nel frattempo, vorrei parlarvi di uno spettacolo di narrazione e musica avvenuto proprio nell’ambito di questa manifestazione ormai un paio di anni fa. Ho già scritto diversi post riguardo alla letteratura italiana postcoloniale e in particolare sull’Italia e il Corno d’Africa.
Ora vorrei parlarvi di Gabriella Ghermandi e del suo romanzo “Regina di Fiori e di Perle”.

Gabriella Ghermandi, italo-etiope-eritrea, è nata ad Addis Abeba nel 1965, e si è trasferita a Bologna, città d'origine del padre, nel 1979. Seguendo l'arte della metafora tipica della tradizione culturale etiope, scrive e interpreta spettacoli di narrazione. E' fondatrice, insieme ad altri scrittori, della rivista online "El Ghibli", che si occupa di scrittori migranti. Il suo primo romanzo è "Regina di Fiori e di Perle" (Donzelli Editore, 2007).

L'allestimento dello spettacolo era molto semplice: Gabriella raccontava la sua esperienza di italo-etiope-eritrea, della vita nel Corno d'Africa e del colonialismo italiano, intervallando i racconti e le letture con canzoni in amarico. Mi ha colpito molto quello che ha detto all'inizio dello spettacolo, e cioè che il colonialismo italiano in Africa è un pezzo di storia che nel nostro paese è stato scolorito fino a diventare invisibile, lasciando di quel periodo solo due concetti: quello di "italiani brava gente", che hanno costruito strade e ferrovie e trattato come pari gli abitanti del luogo, e quello che recita "Noi abbiamo usato i gas nervini per conquistare l'Etiopia". Quello che viene tralasciato, che è stato dimenticato, che non ci viene detto, sono le infinite storie personali che si sono intrecciate plasmando quel pezzo di storia. Le sofferenze e le ingiustizie raccontate da Gabriella fanno star male, toccano nel profondo, ti cambiano.

Gabriella intervallava racconti della sua storia personale con letture dal suo romanzo. Parlando della sua identità italiana, impostale dalla madre che aveva sofferto a causa di quel colonialismo italiano, Gabriella ricorda di aver sentito di essere africana al suo arrivo in Italia. A questo punto si cambia d'abito, abbandonando gli abiti occidentali per il costume tradizionale etiopico-eritreo, la testa coperta da uno scialle arancione e dei sandali ai piedi. Gabriella accende un incenso e ci porta in Etiopia. E' incredibile come i suoi lineamenti, che mi parevano così occidentali all'inizio della narrazione, siano diventati più africani con il solo ausilio di uno scialle. Gabriella canta dei canti tradizionali etiopi, accompagnata dal musicista burkinabè Gabin Dabirè, che canta anche delle canzoni nella sua lingua. Due parti d'Africa così distanti geograficamente, culturalmente e lingusiticamente che si fondono magicamente. La fine dello spettacolo è sancita da un'offerta: Gabriella ha cucinato del pane speziato etiope da offrire al pubblico. Poi scende dal palco e viene tra il pubblico: conosce tutti, persino la ragazza seduta accanto a me! Che persone squisite gli scrittori, sono come me, come te, come tutti...

Il romanzo di Gabriella Ghermandi inizia a Debre Zeit, a cinquanta chilometri da Addis Abeba, in una grande famiglia patriarcale. Un forte legame unisce il vecchio Yacob e la più piccola di casa, Mahlet. Lui la conosce meglio di chiunque altro: la guarda negli occhi, mentre lei divora le storie che lui le narra. Così, un giorno si mette a raccontarle del tempo degli italiani, venuti ad occupare quella terra, e degli arbegnà, i fieri guerrieri che li hanno combattuti. Quel giorno, Mahlet fa una promessa: da grande andrà nella terra degli italiani e si metterà a raccontare...

Vi offro un estratto del libro di Gabriella. Yacob fa parte della resistenza che combatte gli italiani che stanno cercando di conquistare l'Etiopia. Qui riceve la visita della sorella Amarech, innamorata di un italiano e di lui incinta:

Volevo arrabbiarmi, almeno un po', ma non ci riuscii. Con mia meraviglia, i sogni e le preghiere di Alemtsehay e mamma Worknesh avevano lavato via tutto. Mi arresi, quasi.
"Va bene, parlami di lui facendo finta che sia un habeshà*".
Lei rise. "Yacob è impossibile!"
" E perché?".
"Lui è molto diverso da noi. Troppo. Tutti i suoi colori sono diversi dai nostri. Sai, ha un pezzo di cielo negli occhi. Il cielo di fine Meskerem, quando tornano le rondini. Sembra che Dio gli abbia dato quegli occhi per farci vedere il cielo da vicino. E i suoi capelli... anche quelli... sai come sono? Dorati come il tief** maturo, che annuncia la festa del raccolto. Quando le case si svuotano degli uomini e nei campi, oltre ai luccichii dei falcetti, ci sono i canti di ringraziamento. Tutti i suoi colori sono i colori della stagione dei frutti e del raccolto. Può un uomo che porta i segni della natura ricca e generosa essere una cattiva persona? Yacob, lui è il mio uomo - la sua voce si fece sospesa, per aria, poi scese, intima, vicina - parla benissimo l'amarico!"

* termine usato dagli etiopi per indicare se stessi
** cereale autoctono

5. “Le dodici domande” di Vikas Swarup


Anno di prima pubblicazione: 2005
Genere: romanzo (commerciale?)
Country: India

In English: Q & A by Vikas Swarup (then republished as Slumdog Millionaire)

Ram Mohammad Thomas non è Jamal Malik, vorrei chiarire questo prima di cominciare. Il film è solo ispirato al film, il che significa che gli sceneggiatori hanno preso l’idea originale di Swarup ed hanno creato un film che solo parzialmente corrisponde al libro. L’idea è ben costruita ed è la vera carta vincente del romanzo: un abitante degli slum di Bombay partecipa ad un quiz televisivo e casualmente – o per merito del destino - sa rispondere a tutte le domande perché in qualche modo durante la sua vita di ‘cane delle baraccopoli’ ha vissuto delle esperienze che gli hanno permesso di conoscere la risposta a tutti i quesiti posti dal gioco a premi. Attraverso dei flashback, uno per ogni domanda, arriviamo quindi a ricostruire la rocambolesca vita del protagonista. Il tutto in ordine rigorosamente non cronologico.
Ram Mohammad Thomas è un trovatello e porta tre nomi, uno per ogni religione. In un certo senso è l’every man indiano. Quando il conduttore del quiz a cui sta partecipando gli chiede a che religione appartiene risponde: “Hari è a levante, Allah a ponente. Guarda nel tuo cuore, vi troverai sia Karim che Rama”. Nella sua vita Ram Mohammed è stato testimone di innumerevoli atrocità: da preti cattolici cocainomani e pervertiti a padri alcolisti e violenti, passando per ragazzine costrette a prostituirsi, falsi eroi di guerra e bambini costretti a fare i borseggiatori nei treni locali. Si tratta di un frullato di tematiche dove purtroppo nessuna viene approfondita più di tanto e tutte vengono trattate con aria ‘scanzonata’. E’ una tecnica ricorrente della recente narrativa cosiddetta ‘commerciale’ indiana ad uso occidentale (vedi Anita Nair, Farahad Zama e, in parte, Vikram Chandra) che mi devo ancora spiegare appieno.
Le dodici domande è una storia sull’eterna opposizione ricco-povero e buono-cattivo, dove i ricchi sono in prevalenza cattivi, egoisti e violenti (Maman, Shantaram, Swapna Devi, Prem Kumar), mentre i poveri sono buoni e generosi, anche se costretti all’illegalità per sopravvivere. Swarup dipinge la società indiana in modo cinico e impietoso, alla maniera de La Tigre Bianca di Aravind Adiga in un certo senso (anche se la qualità letteraria del vincitore del Booker Prize non si può paragonare a questo romanzo e, anzi, dovrei riscrivere quello che scrissi tempo addietro a riguardo). E’ l’India nera quella che descrive Vikas Swarup, quella che pullula di criminalità e corruzione, gente ammassata negli slum che cerca di barcamenarsi con le poche rupie che guadagna, non rinunciando mai al sogno di una vita migliore. Mi chiedo se Le Dodici Domande sia un libro scritto anche per le masse indiane, che chiedono ‘escapismo’, o se sia furbamente pensato per noi occidentali, assetati di queste storie di ‘India quasi noir’, oscura, in contrapposizione con l’immagine ormai consunta dell’India della spiritualità.
Bisogna riconoscere che si tratta di fiction popolare e, credo, non di un romanzo che aspiri a grandi meriti letterari (c’è poca caratterizzazione e psicologia dei personaggi, nonostante la scrittura sia quel che si dice ‘frizzante’). Detto questo si può riconoscere che il libro non è malaccio, anche se io lo relegherei a lettura di viaggio, per quando si ha bisogno di qualcosa di leggero e che si possa mettere via e riprendere numerose volte.
Un paio di episodi mostrano un’omofobia preoccupante: ci sono due personaggi omosessuali, entrambi pervertiti e pedofili (i due episodi, tra l’altro abbastanza gratuiti, sono stati sapientemente omessi nel film). Normalmente, se un personaggio è omofobico non vuol dire che lo sia anche l’autore o il libro intero, ma in questo caso l’autore non offre nessun indizio che mi faccia dubitare dell’equivalenza di vedute sul tema tra uno e l’altro. Ecco, questo mi ha rovinato davvero la lettura.


Sull’autore: Vikas Swarup è nato ad Allahabad, in India, da una famiglia di avvocati. Di professione fa il diplomatico. Le dodici domande, il cui titolo originale è Q & A, è il suo primo romanzo, scritto nel giro di poche settimane al portatile durante un soggiorno a Londra senza la famiglia. Il suo secondo romanzo s’intitola I sei sospetti, ed è stato pubblicato nel 2008.

Sunday, May 9, 2010

Slumdog Millionaire: spazzatura o capolavoro?

La mia prossima riflessione (ribadisco che io non scrivo quasi mai recensioni, ma riflessioni sui libri che leggo) sarà sul libro Le Dodici Domande di Vikas Swarup, autore che tra l’altro sarà anche al Salone del Libro di Torino. Le dodici domande (Q & A il titolo in inglese) è il romanzo da cui è stato tratto il film The Millionaire (Danny Boyle, 2008)*, che si è portato a casa ben otto premi Oscar, tra cui quelli importantissimi di “miglior film” e “miglior regia”. Prima di parlarvi del libro vorrei parlarvi del film e dei suoi pregi e demeriti.

Numerosi scrittori ed intellettuali indiani si sono espressi, favorevolmente e sfavorevolmente, nei confronti del film. Il commento più famoso è forse quello di Salman Rushdie , che ha ammesso di non essere un grande fan di Slumdog Millionaire, perché il film impila un’impossibilità dopo l’altra: due ragazzi degli slum che parlano un inglese perfetto, persino con inflessione londinese, e poi cadendo da un treno si ritrovano guarda caso di fronte al Taj Mahal, simbolo par excellence delle meraviglie indiane. I difetti del film, secondo Rushdie, derivano dal libro mediocre da cui è stato tratto. Secondo lui ci dev’essere un livello di plausibilità persino nel realismo magico. Detto da uno che ha scritto un romanzo su due attori il cui aereo scoppia in volo e dopo essere precipitati per migliaia di metri, non solo sopravvivono ma uno dei due poi diventa una specie di satiro con mezzo corpo caprino, è il massimo dello spasso. Non so se Rushdie abbia voluto essere ironico oppure se sentiva, come ho sentito io, che Slumdog Millionaire (e il libro da cui è stato tratto) non ha “deciso” chiaramente se vuole essere fantastico o realistico. Poi c’è tutta la questione della plausibilità de I Figli della Mezzanotte, percepito come fantastico in Europa e realistico in India. Molte persone che hanno letto I Figli della Mezzanotte si sono lamentate dell’implausibilità della storia, proprio come ha fatto lo scrittore anglo-indiano con il film di Danny Boyle. La mia risposta nel caso de I Figli della Mezzanotte è che la storia non vuole essere plausibile, e che il realismo non è per forza lo scopo primario che lo scrittore si prefigge. Si potrebbe dire la stessa cosa di Slumdog Millionaire, se non fosse che le sue implausibilità non hanno scopo. Mi spiego meglio: ne I Figli della Mezzanotte la vita di Saleem è un’allegoria della storia contemporanea dell’India. La sua telepatia e le sue conferenze con tutti gli altri bambini nati allo scoccare della mezzanotte nel giorno dell’indipendenza dell’India rappresentano gli sforzi dell’India post-indipendente di rimanere unita pur nella diversità dei suoi abitanti (per non parlare del fatto che tutto potrebbe semplicemente essere nella testa di Saleem, soluzione straordinaria per chi non ama il fantastico). Nel film di Danny Boyle, invece, le implausibilità non hanno scopo, come ho detto sopra. Per esempio, che Jamal, cresciuto in una baraccopoli di Bombay, parli inglese con inflessione londinese, è non solo improbabile ma anche insensato. Ci voleva tanto a scegliere un attore indiano (non me ne voglia Dev Patel, che mi è piaciuto tanto in Skins)? A mio parere è un grave errore da parte degli sceneggiatori (e dire che il film ha vinto anche l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale), che avrebbero potuto spiegare anche solo in trenta secondi perché Jamal parli così bene l’inglese (e infatti Swarup lo fa nel libro). Come spiega molto bene Arundhati Roy in questo articolo (tradotto anche da Internazionale nel marzo 2009), nella scena dell’interrogatorio, la sicurezza di sé emanata dal ragazzo torturato, palesemente britannico, initimidisce il poliziotto indiano, anche se è lui in realtà che lo sta torturando. Non si tratta di un problema di recitazione, continua Arundhati Roy, ma di uno squilibrio del PH della scena, un problema di “semiotica” aggiungerei io.

Un’altra critica fatta al film, specialmente dai nazionalisti indiani (ma quelli hanno da ridire su tutto), è che non è una bella immagine dell’India quella che è stata proiettata in migliaia di schermi in tutto il mondo. E’ un po’ lo stesso discorso che è stato fatto per Gomorra (o per Precious per quanto riguarda la comunità afro-americana). Secondo me è un discorso ridicolo: queste realtà esistono, anche se non sono molto spesso rappresentate al cinema. In altre parole, c’è anche un’India ‘not-shining’. Ma c’è chi ha fatto lo stesso lavoro molto meglio, Mira Nair in Salaam Bombay! per esempio, per cui non vedo niente di rivoluzionario in Slumdog Millionaire. La povertà e lo slum sono inoltre resi quasi glamour nella girandola di cose all-Indian del film (il call centre, il chai, il Taj Mahal, i gangster, i bambini mendicanti, le prostitute, i sari, la corruzione, il cricket e chi più ne ha più ne metta).

Il film ha anche dei pregi, per carità. E’ piacevole, una ‘feel-good comedy’, in fin dei conti. E’ ‘visualmente eccellente’, come l’ha definito Rushdie, e ‘girato bene’, come ha ammesso la Roy. Ha una bellissima colonna sonora (di A.R. Rahman, un maestro), una fotografia impeccabile, un ritmo incalzante ed è un trait d’union simpatico e azzeccato tra i film di Bollywood, escapisti ed irreali fino all’eccesso, e i film occidentali più impegnati. Non è il capolavoro del secolo - d’altronde si sa che i film premiati agli Oscar non lo sono mai – ma è godibile e fruibile soprattutto per quella fetta di pubblico per cui, volente o nolente, questa sarà l’unica escursione cinematografica in India.



* In italiano hanno inspiegabilmente tolto il neologismo ‘slumdog’ dal titolo. L’espressione ha causato polemiche in India, in quanto è un termine dispregiativo, seppur inventato, nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ‘slum’, i quartieri più poveri delle metropoli indiane. Tradotto letteralmente ‘slumdog’ significa più o meno ‘cane dei bassifondi’.