Come
accade a Dorothea Brooke, anch'io mi sono dovuta ricredere sulla
natura di Casaubon. All'inizio del romanzo mi sembrava un uomo noioso
ma tutto sommato innocuo. Dev'essere invece il personaggio più
fastidioso, odioso e lugubre della letteratura inglese. Io lo metto
in cima alla mia lista personale degli antipatici insieme ad Uriah
Heep, quella canaglia che in “David Copperfield” mette sempre il
bastone tra le ruote al protagonista. Mr. Casaubon è un uomo di
mezza età che dedica anima e corpo allo studio e alla redazione di
un testo – una “Chiave per Tutte le Mitologie” – che solo lui
ritiene sarà fondamentale ed importante, tanto che nulla lo deve
distrarre. Ne rimane affascinata la giovane Dorothea Brooke, che
sceglie di sposarlo ritenendo che le offrirà gli stimoli intellettuali che sente di avere bisogno, sperando al contempo di contribuire alla
redazione dell'opera di teologia. Ahimé, sarà solo una chimera,
perché fin dalla luna di miele romana, durante la quale Casaubon si
rinchiude in biblioteca, Dorothea si annoia e a ravvivarle un po' le
giornate è solo il cugino di lui, il giovane e squattrinato Will
Ladislaw, per cui Casaubon prova una forte antipatia e una fondata
gelosia.
Come tutto ciò andrà a finire lo possiamo dedurre
facilmente, ma è soltanto perché questa è la trama “superficiale”
del romanzo; è una specie di pretesto per parlare di molte altre
cose. L'autrice, infatti, ci presenta il romanzo come uno studio
della società nella campagna inglese negli agli anni venti e trenta
dell'ottocento e lo fa attraverso una decina di personaggi e ad
ognuno dedica un numero più o meno uguale di pagine (facendoci pian piano
abbandonare l'idea che Dorothea sia la protagonista del libro). C'è,
per esempio, Tertium Lydgate, proveniente da una nobile e ricca
famiglia ma che ha avuto la sfortuna di scegliere la modesta
professione del medico di campagna. La bellissima moglie Rosamond,
borghese abituata al lusso e ai passatempi frivoli che Lydgate ha
sposato nella convinzione che un uomo di scienza debba avere una
moglie piacevole ma non particolarmente intelligente, non migliora la
situazione disastrata delle finanze di Lydgate. Poi ci viene
presentato il banchiere Bulstrode, zio di Rosamond, che nonostante si
dedichi molto alla beneficenza non può annullare una macchia
indelebile nel suo passato. A dimostrare come tutto nella cittadina di Middlemarch giri intorno ai soldi c'è anche lo sprovveduto Fred
Vincy, il quale sperpera denaro con il gioco d'azzardo e contrae
debiti, ma nonostante tutto spera di ottenere la mano dell'amica
d'infanzia Mary Garth, che ha sempre amato.
C'è
un po' di Jane Austen in tutto questo, ma anche molto di più. Come
scrisse Virginia Woolf in un famoso saggio, non ci troviamo di fronte
ad un romanzo d'amore o d'avventura ma, come era già successo in
Russia, ad un testo dallo sguardo il più amplio possibile. Dalla
posizione della donna all'interno della famiglia, all'ipocrisia dei
politici ottocenteschi, fino ai miglioramenti nella pratica medica e
all'ignoranza dei medici di campagna, George Eliot tratta moltissimi
temi, e nessuno con superficialità.
All'interno
di tutto ciò risulta in particolare evidenza il tema della
disillusione, concepita come l'abbandono di uno stato mentale
dominato dall'idealismo, dall'egoismo o dalla pigrizia, e i
cambiamenti che giungono con la maturità e con una maggiore
consapevolezza del mondo. Prima o poi tutti i personaggi del romanzo
abbandonano un punto di vista miope o parziale. “Marriage is so
unlike everything else. There is something even awful in the nearness
it brings” (p.759) dice Dorothea verso la fine della storia,
riflettendo sul modo in cui la vicinanza che inevitabilmente
accompagna il matrimonio aveva paradossalmente messo un muro tra lei
e Casaubon, impedendo una comunicazione chiara ed aperta.
Dorothea abbandona l'idea di dover essere il lume di candela
dell'anziano marito o l'unica fonte di luce per Middlemarch per via
di quegli atti di beneficenza pensati per essere l'unica sua
consolazione e felicità nella vita. Allo stesso modo, Lydgate
abbandona le idee di gloria giovanili e invece di scrivere un
trattato di medicina rivoluzionario, come avrebbe voluto in partenza,
finisce per esercitare la professione in un luogo di villeggiatura,
guadagnando quei soldi che gli servono per mantenere un tenore di
vita adeguato. Il suo trattato di medicina, manco a farlo apposta,
verterà sulla gotta, malattia dei ricchi. Persino Fred vedrà ridimensionarsi il suo sogno di diventare un proprietario terriero, ma in compenso ci guadagnerà l'amore di Mary. Ognuno, in altre parole,
raggiunge non la felicità in senso stretto, ma una felicità
relativa che in fin dei conti risulta essere quella più vicina alla realtà delle nostre vite.
“Middlemarch”
è senza dubbio quello che si chiama un romanzo fiume. “There is
too much of it” diceva Henry James, ed aveva forse ragione. Non
siamo più abituati alla lunghezza e alla prolissità degli scrittori
vittoriani. Tuttavia, dopo "Middlemarch" (che risale al 1870) abbiamo scoperto che il protagonista di
un romanzo può non essere un eroe perfetto e virtuoso, ma che anzi
ci possono essere più di un protagonista e che i romanzi non
finiscono tutti con un “e vissero tutti felici e contenti”
d'ordinanza. Consigliato a chi non si spaventa di fronte all'abbondanza di vita brulicante di Charles Dickens. Immaginatevelo solo in gonnella che scriveva con uno pseudonimo maschile. Il personaggio della prima moglie di David Copperfield che adorava il suo cagnolino e non era capace di tenere in ordine i conti, per dirne una, c'è tutto.