Nel caso di Agha Shahid Ali (1949 – 2001), la voce sulla nazionalità dell’autore che di solito metto all’inizio di ogni recensione mi mette a disagio, così ho deciso di toglierla del tutto. Si tratta infatti di un poeta kashmiro-americano, nato a Nuova Delhi in un’India appena indipendente e costretto all’esilio negli Stati Uniti a causa della realtà violenta che imperversa nel Kashmir, annesso ad un’India a maggioranza indù pur essendo in larga parte musulmano e rivendicato dal Pakistan. Per esprimere questo disagio, il poeta usa tra le varie cose la metafora dei francobolli (“I’ve brought cash, a currency of paisleys / to buy the new stamps, rare already, blank, / no nation named on them”[1]).
Il paese senza un ufficio postale del titolo è ovviamente il Kashmir, scritto in infinite maniere (“Kashmir, Kaschmir, Cashmere, Qashmir, Cashmir…”) per sottolineare l’inafferrabilità dei luoghi della memoria, che nel frattempo mutano ma nella nostra mente rimangono così come li abbiamo lasciato, sebbene sbiaditi e distorti dal presente che viviamo. In Kashmir, tra l’altro, diversi strati formati da migrazioni, conquiste e conversioni hanno creato una molteplicità di significati, che si rispecchiano nel nome della regione e nelle sue diverse traslitterazioni. E sono proprio questi strati, sovrapponibili ma capaci anche di creare attriti e corti circuito, a descrivere al meglio la poesia di Agha Shahid Ali. Nel descriverla Meena Alexander parla di “una geografia della dissonanza, un luogo che si apre, si scarta per rivelare un altro luogo, un altrove che il poeta deve rivendicare per arrivare dove vuole” (Poetics of Dislocation, p.9, traduzione mia). Così può capitare che il telefono squilli in America e che, a conversazione finita, lo si riagganci in Kashmir, come accade nella poesia che dà il titolo alla raccolta.
Bisogna far notare a coloro che di fronte alla poesia sentono l’urgenza di capire che la poesia di Agha Shahid Ali è costruita per associazioni piuttosto che con un filo narrativo ben preciso. Nonostante questo il poeta parla spesso di avvenimenti reali, come quando nel 1990 l’ufficio postale di Srinagar fu chiuso per dei mesi a causa delle violente insurrezioni contro il governo e la posta si accumulava in casa di un amico del padre del poeta.
I versi di Agha Shahid Ali sono intessuti di nostalgia e coscienza del fatto che una volta che si è partiti il paese natio e perciò anche il proprio passato non sono più recuperabili. La qualità onirica della poesia di Ali è dovuta proprio a questo desiderio di afferrare, di possedere di nuovo i posti dell’infanzia e delle proprie radici, ma è un desiderio che si compie soltanto in brevi momenti di sovrapposizioni tra più luoghi, o nei sogni, che ostinatamente e in maniera insensata ci riportano nei luoghi dove abbiamo vissuto, distorcendoli e adattandoli alla concreta realtà del presente. L’esilio, per il poeta, è come l’arabo, usato in preghiera da tutti i musulmani, ma non sempre posseduto o conosciuto. Nei distici di un ghazal, Agha Shahid Ali incastona questi sentimenti:
The only language of loss left in the world is Arabic –
These words were said to me in a language not Arabic.
[…]
From exile Mahmoud Darwish writes to the world:
You’ll all pass between the fleeting words of Arabic.
At an exhibition of miniatures, such delicate calligraphy:
Kashmiri paisleys tied into the golden hair of Arabic!
[…]
When Lorca died, they left the balconies open and saw:
his qasidas braided on the horizon, into knots of Arabic.[2]
(“Ghazal”)
Agha Shahid Ali ha introdotto gli americani alla forma poetica del ghazal, attraverso i propri componimenti e le sue traduzioni del grande poeta urdu Faiz Ahmed Faiz. Alcuni poeti americani, dopo di lui, hanno sperimentato con questa forma nella lingua inglese, come già aveva fatto García Lorca con lo spagnolo. Ali disse che ogni distico del ghazal, cioè ogni coppia di versi, che ripete nel secondo verso la rima presente nel primo distico della poesia, è come la pietra di una collana, che da sola dovrebbe continuare a brillare in vivido isolamento.
Sull'autore: Agha Shahid Ali è nato a Nuova Delhi nel 1949. Ha studiato a Nuova Delhi e in Kashmir, prima di trasferirisi in America, dove ha vinto numerose borse di studio. Tra le sue collezioni di poesie figurano "A Nostalgist's Map of America" (1991) e "Call me Ishmael Tonight: A Book of Ghazals" (2003), oltre che "The Country Without a Post Office" (1998). Ha curato anche un libro di ghazal in lingua inglese, "Ravishing Disunities: Real Ghazal in English" (2000). E' morto prematuramente di cancro al cervello nel 2001.
[1] “Ho portato dei contanti, una valuta di tessuti a motivi cashmire / per comprare i nuovi francobolli, rari di già, spogli / nessuna nazione vi è nominata” (traduzione mia).
[2] “L’unica lingua della perdita rimasta al mondo è l’arabo / Queste parole mi furono dette in una lingua che non era l’arabo. / […] Dall’esilio Mahmoud Darwish scrive al mondo: / Passerete tutti per le parole sfuggenti dell’arabo. / Ad una mostra di miniature, una calligrafia delicatissima: / motivi cashmire annodati ai capelli d’oro dell’arabo! / […] Quando Lorca morì, lasciarono le finestre aperte e videro: / le sue qasidas intessute nell’orizzonte, nei nodi dell’arabo” (traduzione mia).
[3] “Ora e nel tempo avvenire, / Ovunque s'indossi il verde, […] / Una bellezza terribile è nata.” (da “Pasqua 1916”).
[4] “Se potessi corromperli con una Rosa / Gli porterei ogni fiore che cresce / Da Amherst al Kashmir!”.
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