Uzodinma Iweala. Questo nome difficile da pronunciare appartiene ad un giovane scrittore di origine nigeriana cresciuto negli Stati Uniti. Proveniente da una famiglia molto privilegiata (sua madre è Ministro delle Finanze), Iweala si è laureato in letteratura inglese ed americana ad Harvard, ma come se non bastasse ha anche una laurea in medicina. Incluso tra i 20 migliori giovani scrittori americani da Granta Magazine (una lista simile a quella del sondaggio che vi propongo), Iweala è l'autore di "Bestie Senza una Patria", che racconta la storia di un bambino-soldato. Dialoga con lui Gianni Biondillo, scrittore e giornalista italiano che ha fatto alcune esperienze in Africa. L'incontro ha puntato molto sul fatto che il pubblico in sala non conosce molto dell'Africa, o meglio conosce solo quello che mostra la televisione: fame, povertà, malattie e guerra. Iweala ha insistito molto sulle generalizzazioni che vengono fatte riguardo all'Africa, nonostante tra il pubblico ci fossero una professoressa di storia africana e persone che per lavoro hanno a che fare tutti i giorni con africani provenienti dalle regioni più disparate. L'autore, nonostante abbia scritto un romanzo su una tematica così drammatica e sia in procinto di pubblicarne un altro che parla dell'AIDS nel continente africano, sostiene che noi non conosciamo l'Africa e non ci rendiamo conto che la gente vive vite perfettamente normali anche lì. Forse è vero, però io sto dalla parte dell'intervento polemico (e poco apprezzato) che c'è stato alla fine dell'incontro: perché si è parlato poco, o quasi niente, di letteratura? Perché gli scrittori africani (o indiani, cinesi etc.) devono rispondere a domande sull'economia odierna della Nigeria e l'influenza degli investimenti cinesi sullo sviluppo del paese, quando dovrebbero spiegarci perché la letteratura è importante per avere una visione più amplia e particolareggiata del continente? Io credo che una pluralità di storie (usando l'espressione di Chimamanda Ngozi Adichie, un'altra nigeriana che ammiro), si possa raggiungere anche, anzi soprattutto, attraverso la letteratura. Ed infatti questa conclusione arriva, un po' inaspettata ma sicuramente salvifica, da Gianni Biondillo che, per ribadirci come non ci sia una sola Africa, ironizza anche sul fatto che in questo caso è lui, figlio di "terroni" semi-analfabeti che per poco non andava neanche all'università, ad essere il vero svantaggiato dei due.
Laila Wadia e Enrico Franceschini. Entrambi scrivono di incontri e scontri tra culture, uno esaltando la multietnicità e l'apertura di una città come Londra, e l'altra ironizzando sui vizi e le stranezze del popolo italiano. Laila Wadia è nata a Bombay, in India, ma vive da tantissimi anni in Italia. Il suo "Come Diventare Italiani in 24 ore" è l'avventura tragicomica di una ragazza indiana che viene a studiare in Italia grazie ad una borsa di studio, e finisce poi per non lasciare più il Bel Paese, nel bene o nel male. Si legge in due ore, fa ridere e lascia un dubbio: quanto autobiografica è questa storia? Ma Laila Wadia ammira per davvero Aida Yespica per aver avuto successo nonostante abbia origini non proprio italiche?
Enrico Franceschini, invece, è un blogger: scorrendo l'homepage di Repubblica vi è può esser capitato di vedere la thumbnail di un blogger dall'espressione ironico-rassegnata che racconta che cosa succede nella capitale britannica. Innamorato pazzo di Londra, Franceschini ci spiega come fare a distinguere un italiano che gira con la famiglia per South Kensington, ci illumina sul perché Londra sia impazzita per la cucina etnica (un tentativo di recuperare il tempo gastronomicamente perso, secondo lui) e ci regala un resoconto della sua serata a Buckingham Palace, tra gaffe dettate dall'ansia e conversazioni piacevoli con il principe Carlo.
Salvatore Scibona. Anche lui, come Téa Obreht, è stato incluso tra i '20 under 40' del New Yorker (sembra che gli organizzatori del festival abbiano invitato a tappeto gli scrittori giovani più apprezzati dai giornali letterari americani). Come si deduce facilmente dal nome, Salvatore Scibona è uno scrittore di origine italiana. Tuttavia è nato e cresciuto negli Stati Uniti ed ha imparato l'italiano solo da adulto. Il suo acclamato romanzo "La Fine" è ambientato nella comunità italoamericana di Cleveland, in Ohio, dove è cresciuto. Ogni personaggio sembra indirizzato verso una meta, la "fine" del libro, appunto. Eppure quasi non c'è trama in questo libro, che dagli anni '50 va a ritroso fino al 1915, girando sempre intorno alla festa dell'Assunta, molto importante all'interno della comunità italoamericana. Si tratta di un mondo dimenticato e a noi sconosciuto, eppure appartiene al nostro passato e a quello di tutti gli emigranti che dai paeselli più sperduti sono andati a fare fortuna in America. Lo stesso Scibona racconta di come abbia dovuto riscoprire le proprie radici e come sia un caso che si chiami Salvatore (suo padre, infatti, si chiama Kenneth). "Con un nome così", afferma lo scrittore, "mi sono sentito quasi in dovere di indagare sulle mie origini, mentre per quanto riguarda la storia della famiglia di mia madre, di origine polacca, non è stato lo stesso, anche perché non c'erano più legami con il suo paese d'origine. Non conosco più nessuno in Polonia, mentre in Sicilia ho ancora dei parenti, che sto per andare a visitare".
Geraldine Brooks. Australiana d'origine ed americana d'adozione, Geraldine Brooks scrive romanzi storici dalle trame molto affascinanti. Che non si tratti di libri strampalati davanti ai quali gli storici si fanno solo grasse risate è chiaro dal fatto che nel 2006 l'autrice ha vinto il Premio Pulitzer per il suo romanzo "L'idealista", che racconta le peripezie del signor March, il padre delle sorelle di "Piccole Donne" che all'inizio del romanzo lascia le figlie per tornare solo alla fine del libro. "L'idealista", ispirandosi alla vita del vero padre dell'autrice del celebre classico per l'infanzia, racconta come il signor March, fervente abolizionista, avesse partecipato alla guerra di Secessione americana nel periodo in cui era lontano da casa. Un altro suo romanzo di Geraldine Brooks dalla trama affascinante è "I custodi del Libro", che racconta come un importante ed antico libro ebraico sia stato nascosto in una moschea di Sarajevo per metterlo al riparo dalla guerra imminente. L'autrice ha raccontato come compie le sue ricerche, parlando con testimoni diretti o con i loro discendenti, e come il germe che dà la vita ad un libro nasca da un interesse personale. Nel caso de "L'isola dei due mondi", per esempio, ambientato a Martha's Vineyard (prestigioso luogo di villeggiatura, ma anche uno dei pochi luoghi negli Stati Uniti dove i nativi americani non sono mai stati scacciati), l'interesse è nato quando lei stessa si è recata sull'isola per acquistare una proprietà. Durante il suo soggiorno a Mantova, per esempio, ha visitato il Palazzo Ducale ed è rimasta affascinata dalla presenza di una nana, vestita in maniera molto elegante, in uno degli affreschi delle stanze del palazzo. E' il genere di cose, spiega, che fanno scattare la sua voglia di ricerca, per poi creare una storia nata da un fatto curioso o interessante. Non deve tuttavia, essere, un fatto troppo inverosimile. L'intervistatrice, infatti, ci racconta come una volta Geraldine Brooks abbia dovuto scartare una storia troppo variopinta, che aveva per protagonisti una coppia che si salvò da un'epidemia di peste chiudendosi in una chiesa ed isolandosi dal resto della comunità.
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