Wednesday, September 22, 2010

V.S. Naipaul @Festivaletteratura – 10 settembre 2010

Ed eccomi finalmente all’incontro della bisticciata tra V.S. Naipaul, premio Nobel per la Letteratura nel 2001, e la giornalista e scrittrice Caterina Soffici. Preferirei non parlarne, ma visto che ho iniziato a scrivere questi post per fare una “relazione personale di alcuni incontri interessanti a cui ho assistito”, non posso farne a meno. Anche perché molte persone che hanno letto gli articoli sui quotidiani nazionali mi hanno chiesto che diavolo è successo. Devo confessarvi che non ho capito neanch’io cosa diavolo è successo!
Prima di tutto, per chi non conoscesse V.S. Naipaul: è uno scrittore di origine trinidadense, figlio di immigrati indiani, emigrato all’età di 18 anni in Inghilterra e che ha scritto sia della sua isola natale, sia di India, sia di Africa. E’ uno degli scrittori caraibici e postcoloniali più conosciuti al mondo e, come ho scritto prima, è stato premiato con il più importante premio letterario del mondo, il Nobel. Ultimamente ha scritto soprattutto reportage di viaggio, che vengono descritti come sinceri e dettagliati. Il fatto è che l’intervistatrice ha cominciato la presentazione dal punto di vista sbagliato, sottolineando le polemiche che girano intorno al personaggio. Vi spiego tutto: V.S. Naipaul è spesso bollato come anti-terzomondista (pur venendo egli da un paese del terzo mondo), provocatoriamente anti-islamico, snob, colonialista e viene visto, da un punto di vista più prettamente personale, come una persona difficile. Caterina Soffici lo definisce “uno dei campioni del politicamente scorretto”, ricordando anche una sua dichiarazione, che però così fuori contesto può voler dire tutto e niente (per la cronaca la dichiarazione era “in Inghilterra non esistono più i domestici di una volta”). Ora, siccome l’incontro era una presentazione dell’ultimo reportage di viaggi di V.S. Naipaul intitolato “La Maschera dell’Africa”, Caterina Soffici si addentra nella polemica che questo libro ha suscitato, in particolare citando un articolo uscito sul Sunday Times e scritto da tale Robert Harris che definiva il libro “tossico, grossolano, in accurato, in una parola repellente”. Le polemiche si riferiscono in particolare ad un passaggio in cui Naipaul dice che in Ghana sono talmente affamati da mangiare i gatti (ohibò, lo si faceva anche in Italia in tempo di guerra e poi onestamente non ci vedo nulla di strano nel mangiare un gatto, quando noi mangiamo galline, mucche e cavalli) e ad un’intervista a Winnie Mandela, che rivelava alcuni particolari della politica sudafricana post apartheid che poi lei ha smentito (anzi, ha smentito di aver mai fatto l’intervista, ohibò di nuovo). Naipaul risponde garbatamente all’intervistatrice dicendo che se un decimo di quelle cose che gli vengono attribuite fossero vere, non avrebbe nessuna reputazione. Egli non ha intenzione di difendere i suoi libri contro questi attacchi, perché chi li ha letti sa benissimo che non è lui ad avere pregiudizi nei confronti dell’Africa, ma sono i giornalisti ad attribuirgli i loro pregiudizi sul continente. Detto questo l’intervistatrice avrebbe dovuto capire che non era il caso di continuare a parlare della polemica e magari focalizzare su un altro argomento. A questo punto lo scrittore si è arrabbiato, percependo probabilmente erroneamente che l’intervistatrice era prevenuta nei suoi confronti e che o non aveva letto il suo libro oppure era “troppo di sinistra” (Naipaul dice che i suoi libri sono apolitici ma che comunque viene continuamente attaccato dagli intellettuali di sinistra). Nonostante Caterina Soffici abbia assicurato lo scrittore che non era così e che lei era anche d’accordo con alcune delle cose che lui scriveva nel libro, l’atmosfera diventa tesa e astiosa, con l’autore che si rifiuta di rispondere ad ogni altra domanda della Soffici e il pubblico che si schiera ora dalla parte di uno, ora dalla parte dell’altro.
Io mi sono trovata un po’ interdetta, non avendo letto il libro in questione, né conoscendo a fondo la polemica (l’articolo del Sunday Times è tra l’altro disponibile on-line solo a pagamento). Penso che ci sia stato prima di tutto un grosso malinteso, causato forse anche dall’età di V.S. Naipaul (ha 78 anni e sembra star invecchiando malino). A comprovare la cosa c’è il fatto che la moglie di Naipaul, Nadira, deve intervenire due volte a sedare gli animi e a parlare per il marito, insistendo sul fatto che hanno viaggiato per un anno e mezzo in Africa per scrivere questo libro e che le polemiche che sono state sollevate denotano che non si è capito il lavoro che è stato fatto sulla magia e sulle tradizioni africane. Conclude affermando – come se non si fosse capito – che suo marito ha un’alta considerazione del suo lavoro, tutto qui.
Dopo due tentativi dell’intervistatrice di portare la discussione, ormai irrimediabilmente compromessa, su altri binari facendo una domanda sull’Islam (altro argomento altamente a rischio) e una sulla scrittura (ma avrebbe dovuto pensarci prima) a cui Naipaul non vuole rispondere, egli esprime la volontà di terminare qui la conversazione (facendo, ahimè, la figura dell’antipatico snob che si porta dietro). La vera vittima della situazione, come afferma tra l’altro la scrittrice iraniana Azar Nafisi, presente in sala e intervistata dalle televisioni poco dopo la fine dell’evento, è il pubblico, che ha pagato il biglietto per conoscere un autore rinomato, per sentir parlare di letterature e invece non ha ottenuto niente di tutto questo.
Che delusione! Delusione di non aver ascoltato un dibattito impostato bene e delusione di aver “conosciuto” uno scrittore così irrispettoso del pubblico che è venuto per sentirlo.

Tuesday, September 21, 2010

Zadie Smith @Festivaletteratura – 9 settembre 2010

La giovane autrice che ha esordito a soli venticinque anni con il romanzo best-seller “Denti Bianchi”(2000) presenta in quest’occasione una raccolta di saggi chiamata “Changing My Mind” e che è sottotitolata “Occasional Essays”, per specificare la natura eterogenea degli scritti. L’incontro di questa sera, invece, s’intitola “Lettore e Scrittore: Talenti a Confronto”; ci interessa quindi la vita di lettrice di Zadie, ma anche quella di scrittrice, sia chiaro. La recente maternità le ha ammorbidito i tratti e i capelli lunghi le donano: lei e Tishani Doshi si contendono sicuramente lo scettro di donna più bella del festival. Zadie ha questa voce bassa e parla con un tono così serio che alla radio mi era sembrata un po’ snob, quasi antipatica e altezzosa. Invece da questo incontro traspare proprio l’opposto: è un po’ timida e molto umile.
L’intervistatrice, Simonetta Bitasi, confessa di non essersi preparata come avrebbe voluto per questo evento, ma la colpa è di Zadie Smith, che le ha fatto rileggere i grandi autori di cui parla Zadie nel libro, che spaziano da Vladimir Nabokov a David Foster Wallace. Solo su una cosa non è d’accordo con Zadie: Grace Kelly è migliore di Katherine Hepburn, scherza Simonetta Bitasi. Perché tra i suoi saggi, che trattano gli argomenti più disparati, ce ne è anche uno sul cinema classico.
Nel caso dell’autrice, la saggistica è più personale della narrativa: si imparano molte più cose sulla famiglia e sulla vita di Zadie Smith nel leggere questo libro che non nei suoi tre romanzi. Lei spiega, ostinandosi a parlare il suo “italiano bambino”, che il ritratto di suo padre che aveva fatto in “Denti Bianchi” era comico e leggermente volgare. Ora che lui non c’è più, sente quindi il bisogno di omaggiarlo in modo diverso. Un discorso che è uscito anche nell’incontro con Hanif Kureishi, quasi che il loro “incrocio di antiche culture” abbia portato inevitabilmente ad uno scontro generazionale. O forse no, forse è inevitabilmente quello che succede agli scrittori, che “manipolano vite” anche in modo crudele.
Parlando della lettura, Zadie Smith è convinta che ciò che si legge dai 14 ai 16 anni sia quello che conta di più, che ti caratterizza maggiormente. Dev’essere stata piuttosto precoce come lettrice perché io le mie letture più importanti le ho fatte piuttosto tra i 16 e 18 anni. La lettura ti rende parte di una comunità: due persone sono accomunate solo dal fatto di essere dei lettori. Zadie Smith si fa delle domande buffe (“Ma che legge Berlusconi?”), poi spiega che la sua non era una famiglia di intellettuali, di qui il suo entusiasmo per il mondo dell’università. Zadie Smith, infatti, insegna scrittura creativa alla New York University ed insegna ai suoi studenti che, più che scrivere continuamente o tenere diari (“Quello è cazzo” dice lei, facendo ridere il pubblico in sala), è importante mantenere sia il “sense” che la “sensibility”, cioè non sacrificare il sentimento, la passione che si prova per la letteratura, per l’approccio analitico ai testi in questione.
Alcune domande interessanti arrivano dal pubblico, per esempio sul significato degli incontri con gli autori. Zadie ammette di essere andata solo una volta ad un incontro con uno scrittore che ammirava durante gli anni dell’università. Si trattava di Martin Amis, che per rispondere ad una domanda sul suo lavoro di scrittore e sulla sua giornata tipica rispose che scendendo la sera per cenare i famigliari gli chiedevano com’era andata la giornata e lui gli rivolgeva la stessa domanda, ma dentro di sé pensava “As if I give a fuck” (“Come se me ne fregasse qualcosa”). Ora i due si prendono in giro (“he teases me” dice lei in inglese) per via di questo episodio, ma all’epoca era rimasta perplessa. Dice che alle volte incontrare una persona che si stima può essere deludente o banale, come è capitato a lei nelle uniche due conversazioni che ha avuto con David Foster Wallace (una sui capelli delle donne nere, su quanto spesso si piastra i capelli per la precisione).
Alla fine ci rivela che ha in serbo per noi un romanzo di non più di 200 pagine, intitolato “NW”, il codice postale della zona di Londra dove è cresciuta, ma che ha bisogno ancora di qualche ritocco. D’altronde, con una bambina piccola, il tempo è poco e tutti le preoccupazioni vertono su questioni banali, come quale nido scegliere.
Inutile dire che ho ordinato questa raccolta di saggi (la voglio leggere in inglese) e che mi è venuta voglia di leggere come minimo Martin Amis e David Foster Wallace, che se piacciono a Zadie Smith credo (spero) che piaceranno anche a me, perché come ha osservato lei in questo splendido incontro, uno scrive quello che vorrebbe leggere.

Monday, September 20, 2010

Azar Nafisi @Festivaletteratura – 9 settembre 2010

Azar Nafisi è l’autrice di “Leggere Lolita a Teheran” (2003), un libro di memorie su come un’insegnante iraniana di letteratura inglese, dopo aver lasciato l’università per essersi rifiutata di fare lezione con il velo, abbia deciso di tenere una specie di club con le sue studentesse più affezionate, come una specie di Miss Jean Brodie, e discutere dei grandi della letteratura inglese e americana, da Jane Austen a Nabokov, da Fitzgerald ad Henry James. Recentemente ha scritto un secondo libro di memorie, “Le cose che non ho detto”, ed è proprio questo che ha presentato in questo incontro. Il libro nasce dall’esigenza di parlare, anzi di scrivere, delle cose che non ha potuto dire nel periodo in cui viveva in Iran (vive in esilio negli Stati Uniti dal 1997). Azar Nafisi ci fa subito l’esempio del primo libro di Nabokov che ha letto, “Ada”, regalatole dal suo primo amore. Sul frontespizio del libro c’era una dedica d’amore che diceva “Alla mia Ada, con amore, Ted”. Innamorarsi a Teheran è stata una delle cose di cui non ha mai potuto parlare, come guardare un film dei fratelli Marx, oppure appunto leggere “Lolita”. La dittatura, secondo Azar Nafisi, tiene i cuori in ostaggio e i suoi orrori mettono in moto un’operazione perversa mediante la quale ti senti in colpa per quello che non hai fatto, nel suo caso, per esempio, non essere stata presente al momento della morte dei genitori.
Il libro, da quello che traspare nell’incontro, è anche un tributo al padre dell’autrice, che è stato sindaco di Teheran all’epoca dello scià, e alla madre, una delle prime a diventare membro del parlamento in Iran. La famiglia di Azar Nafisi è quindi una famiglia di intellettuali, un po’ come quella della scrittrice pakistana Kamila Shamsie, altra autrice dell’area mediorientale presente al festival. Azar Nafisi è una donna spigliata e appassionata, lontanissima dallo stereotipo di donna iraniana sottomessa e ossessionata dalla religione che ci giunge dai media. E’ prova che esiste anche un Iran diverso, moderato, e Azar Nafisi ce lo fa capire dicendoci questo: “La cultura dell’Iran non è solo Ahmadinejad, Sakineh o il burqa, è anche la sua gente, i suoi poeti meravigliosi come Firusi, così come la cultura americana non è solamente Mark Twain e Fitzgerald, ma anche lo schiavismo”.
Lo spazio per le domande permette al pubblico di esprimere tutto l’amore e l’entusiasmo per il libro di Azar Nafisi e in particolare per il processo a Gatsby messo in pratica dall’autrice e dai suoi studenti, una trovata effettivamente geniale. L’Iran e il Medio Oriente in genere sono stati tra l’altro un argomento molto dibattuto in molti eventi del festival. Per esempio, sotto il tendone in Piazza Erbe, c’era uno spazio dedicato al confronto e al dibattito sul web da parte dei giovani iraniani. Pare infatti che il persiano sia la terza lingua più usata su internet, o perlomeno sui blog, dopo l’inglese e il cinese.Viene da sé dire che mi è venuta una gran voglia di ributtarmi tra le meravigliose pagine di “Leggere Lolita a Teheran” ad affrontare le interpretazioni di alcuni grandi libri da un punto di vista iraniano, oppure prendere in mano “Le cose che non ho detto” e capire qualcosa di più su un paese che non ci ha dato solo i tappeti, ma anche grandi poeti e pensatori, tutta gente che le becere politiche di oggi vogliono cancellare. Perché la dittatura, ci fa capire Azar Nafisi, crea una cultura dell’oblio che noi dobbiamo assolutamente cercare di ostacolare, preservando la memoria.

Thursday, September 16, 2010

Tishani Doshi @Festivaletteratura – 10 settembre

Mentre mi incammino verso il Palazzo di San Sebastiano, dove si svolgerà l’incontro con Tishani Doshi, c’è una ragazza che cammina spedita di fronte a me. E’ vestita come se fosse in pausa pranzo e lavorasse in un ufficio di Mantova, invece è Tishani Doshi, la giovane scrittrice indiana (ma meta gallese in realtà) che presenterà il suo libro “Il Piacere Non Può Aspettare”.
Quando arrivo la sala è già gremita e finisco in seconda fila ma molto di lato, cosicché una colonna mi impedisce la vista dell’intervistata, che decide di non sedersi al centro del tavolo, lasciandomi la vista della traduttrice Chiara e della presentatrice Lella Costa. Poco male, penso io, non mi farò distrarre dalla bellezza e dalla grazia di Tishani Doshi, cose ricordate da ogni intervistatore, quasi fosse la sua maledizione.
Intelligentemente Lella Costa legge dei passaggi del libro, facendo assaggiare al pubblico la poesia della scrittura di Tishani Doshi. Non poteva essere altrimenti, d’altronde, perché Tishani Doshi è innanzitutto una poetessa. Ha infatti scritto un libro di poesie chiamato “Countries of the Body”, molto emblematico della sua situazione. Nata dall’incrocio tra Galles e India, Tishani Doshi ha vissuto tutta la vita a cavallo tra le due culture, ma grazie al “piacere”, come dice lei, ha trovato un’appartenenza. Tutto il lavoro della Doshi, la scrittura poetica e romanzesca, ma anche la sua esperienza di ballerina con la celebre coreografa Chandralekha, ruota intorno al corpo e al piacere, che per Tishani Doshi significa fare quello che ti rende felice. Per lei il piacere non è una cosa superficiale, ma qualcosa di profondo. Con il suo libro ha voluto indagare su diversi tipi di piacere, diversi da quelli che sembrano essere obbligatori per una ragazza indiana, per esempio sposare un buon partito, avere dei figli e così via.
Il libro di Tishani Doshi parla d’amore, l’amore ideale di Babo e Sian, i protagonisti del romanzo, ma anche quello tra genitori e figli, tra sorelle o nonni e nipoti. L’intervistatrice osserva che la vera protagonista del romanzo è nonna Ba, che non si è mai spostata dal suo villaggio, ma che è riuscita a tessere la trama della famiglia per molte generazioni. In un libro ricco di spostamenti – dall’India al Galles e viceversa per le “estati ogni tanto” – è una cosa degna di nota.
Per rimediare al vestito “troppo precisino” di questo incontro, Tishani Doshi sceglie un sari per presentare l’arte di Chandralekha ad un altro evento, di cui è disponibile il video on-line. Vi consiglio caldamente di guardarlo perché vale la pena.

Kamila Shamsie @Festvaletteratura – 9 settembre 2010

L’incontro, svoltosi presso la chiesa di San Maurizio, inizia con qualche minuto di ritardo perché, dopo una notte di piogge incessanti, la chiesa è mezza allagata e i volontari hanno dovuto asciugare il pavimento. Kamila Shamsie, scrittrice pakistana che ha pubblicato in Italia, fra gli altri libri, “Ombre Bruciate”, saga familiare ambientata tra il Giappone, l’India, il Pakistan, l’Afghanistan e gli Stati Uniti.
La verte punta molto sull’identità, sulla ricerca dei luoghi di appartenenza (“where we find belonging”). Kamila Shamsie afferma che il suo libro vuol parlare di quelle persone che non cercano necessariamente un paese di appartenenza, come Hiroko, la giovane giapponese che nel suo romanzo dopo lo scoppio della bomba di Nagasaki si rifugia in India prima e Pakistan dopo.
La scrittrice inoltre afferma di aver scritto un romanzo interessato alle persone che non prendono le decisioni, ma la cui vita è comunque influenzata dalle guerre e dalle decisioni dei potenti. “Ombre Bruciate” è un romanzo che parla anche di politica, ma non bisogna dimenticare che Kamila Shamsie è una scrittrice. Troppo spesso, infatti, durante queste conversazioni e interviste con scrittori che vengono dai paesi del Medio Oriente ce ne dimentichiamo e finiamo per fare delle domande sui diritti delle donne in Pakistan, su Sakineh, sulla religione islamica o sulla guerra al terrorismo. A queste domande Kamila Shamsie risponde come può, come una donna istruita qualunque. Sottolinea che lei viene da una famiglia privilegiata, perché la madre è una famosa giornalista pakistana mentre la nonna è stata autrice di un diario dei suoi viaggi in Europa, ma che la sua situazione non è la stessa di tutte le donne pakistane.
Kamila Shamsie non porta il velo e potrebbe benissimo essere una donna italiana per abiti e colori. Ricorda al pubblico che il Pakistan ha avuto una donna come primo ministro, lasciando molti a bocca asciutta. Cerca di spiegare ai più cocciuti come il burqa sia stato una tradizione in alcuni paesi del Medio Oriente per secoli e come la visione che spesso abbiamo in Occidente dell’Islam sia falsata dai media e da un’interpretazione radicale di questa religione, che è molto minoritaria.
L’incontro è stato purtroppo rovinato da alcune domande a mio modesto parere banali, anche da parte dell’intervistatrice, Caterina soffici (quella della diatriba con Naipaul), che chiede alla Shamsie se si sente più pakistana o inglese. Lei ovviamente risponde che non ha mai pensato che scrivere in inglese significasse essere inglese, visto che quella lingua ormai appartiene a molti paesi e a molte persone. Anche rispondendo ad una domanda del pubblico dice stupita che l’inglese è la sua prima lingua, perché è la lingua con cui è cresciuta, con cui tutti le hanno parlato fin da quando è nata e ammette di aver avuto qualche titubanza al suo arrivo negli Stati Uniti solo al momento di comprare le spezie, perché ne conosceva i nomi solo in urdu.

Monday, September 13, 2010

Hanif Kureishi @Festivaletteratura – 8 settembre 2010

Quest’anno finalmente sono andata a quella meravigliosa manifestazione che è il Festivaletteratura di Mantova, la città dei Gonzaga, di Rigoletto e di Virgilio.
Il mio primo incontro, sotto il tendone del Cortile della Cavallerizza, presso il Palazzo Ducale, è stato con lo scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi. Il pubblico, “quello delle grandi occasioni” lo hanno successivamente definito i giornalisti, comprendeva anche Alain Elkann, noto estimatore del festival, in prima fila. Famoso soprattutto per il suo primo romanzo “Il Budda delle Periferie” (1990) e per la sceneggiatura del film “My Beautiful Laundrette” (1985), negli ultimi anni Kureishi ha toccato varie tematiche nella sua attività di scrittore: la sessualità, le relazioni padre-figlio, il successo professionale e il fallimento sul piano personale, la disillusione per la politica e, non da ultimo, la sua ossessione per gli analisti, che ricorrono tre volte nella sua ultima raccolta di racconti, “Il Declino dell’Occidente”. Gli analisti, spiega Kureishi all’intervistatore Gabriele Romagnoli, sono le persone più invidiate da noi scrittori, perché hanno a che fare con le persone più perverse, they are so close to the Hitchcockian. Ed è proprio questo che sembra fare Kureishi nella sua narrativa: parlare di quelle cose che “ammorbano” la nostra vita, quelle tante stranezze e perversioni che solo i migliori scrittori sanno catturare nella loro arte. Il “declino dell’occidente” di cui parla Kureishi è il declino di una generazione, la stessa del Budda delle Periferie, ma invecchiata, disillusa e nostalgica di un tempo in cui si poteva, o anche solo si voleva, cambiare il mondo. E’una generazione di quaranta e cinquantenni che hanno a che fare con tutta una serie di nuove esperienze: il divorzio, i figli appunto, oppure i nuovi avvicendamenti della politica internazionale e le sue conseguenze sulla vita di tutti i giorni.
La conversazione vira sulla realtà contemporanea, fermandosi sulla politica. Tony Blair, secondo lo scrittore londinese, è stato una forte delusione, perché i laburisti, dopo anni di dominio conservatore thatcheriano, si aspettavano un cambiamento in meglio. Kureishi, in vena di confessioni e non disdegnando battute di spirito sempre sagaci, afferma che se sei left-wing and liberal vorresti spostare il nuovo libro di memorie di Tony Blair dalla sezione politica a quella della narrativa. Ma il momento in cui Tony Blair lo ha deluso per la prima volta è stato quando lo ha visto con Berlusconi, scherza Kureishi, lasciando però intendere che cosa pensa del nostro capo del governo: “Insieme hanno trascorso molte notti nella villa di Berlusconi, mi sarebbe piaciuto esserci. Immagino una scena alla Satyricon di Fellini, oppure avranno parlato di filosofia”. “I politici non rispecchiano per forza l’anima di un paese, anche se di certo fanno parte di noi”, puntualizza poi, quasi a tranquillizzarci.
In seguito l’incontro tocca toni quasi esistenziali, perché Kureishi finisce per parlare del rapporto padre-figlio e non solo dei suoi due gemelli adolescenti che gli chiedono se stia rimpicciolendo quando invece sono loro che stanno crescendo, ma anche del rapporto con suo padre, morto qualche anno fa. Il rapporto con la famiglia è stato per Kureishi notoriamente burrascoso, perché uno scrittore, e in particolar modo uno che usa elementi semi-autobiografici come Kureishi, manipola spesso materiale proveniente dalla storia della propria famiglia per costruire storie interessanti, anche nel senso morboso e perverso di cui si parlava prima. Il problema con i morti, afferma Kureishi, è che per zittirli non puoi nemmeno portarli al cinema. Questo per dire che la figura del padre ritorna spesso nella sua attività di scrittore, magari in forme diverse. Nella sua esperienza, le litigate con il padre per fatti successi 35 anni fa non sono per nulla terminate.
Nella sua vita, prosegue Kureishi tornando in ambito più prettamente letterario, sono cambiate molte cose, ma una cosa è rimasta costante ed è la passione per la scrittura. Quando ha iniziato a scrivere (il suo primo romanzo, “Il Budda delle Periferie”, parla dell’integrazione dei giovani asiatici e anglo-asiatici nella società inglese degli anni ’70), sentiva che descrivere il cambiamento dell’Inghilterra in chiave multietnica era necessario ed interessante, e che ancora oggi, a livello europeo, se ci sono degli scrittori che descrivono i cambiamenti dell’Italia o della Spagna in questo senso negli ultimi dieci anni, questi sono sicuramente tra i più importanti e validi in circolazione.
L’incontro termina con il ringraziamento dell’intervistatore, che afferma a ragione che Hanif Kureishi con questo incontro ha fatto letteratura.

Tuesday, September 7, 2010

"Il Piacere Non Può Aspettare" di Tishani Doshi


Anno di prima pubblicazione: 2010
Genere: romanzo, saga familiare
Paese: India / Galles

Sîan e Babo si incontrano a Londra alla fine degli anni sessanta, lui è indiano e lei gallese. Fanno l’amore in un appartamento di Finchley Road, si innamorano e, nonostante le due famiglie siano sospettose, si sposano. Stranamente decidono di vivere in India, a Madras, e non nella già cosmopolita Londra. Hanno due figlie, Mayuri e Bean, diversissime tra loro. Una è calma e tranquilla quanto l’altra è imprevedibile e bizzosa, spiega in un momento di preveggenza nonna Ba.
Tishani Doshi ci squaderna odori ed impressioni non solo dell’India, ma anche del Galles. Sîan viene da un villaggio piccolissimo e piuttosto povero del Galles, dove tutti vivono in case ammassate una accanto all’altra come fiammiferi, con un minuscolo giardino davanti. Nel paese da cui viene è scandaloso persino farsi il buco alle orecchie, figuriamoci sposare uno sconosciuto che viene da un paese lontanissimo. Lui invece appartiene alla borghesia: nella casa di Madras c’è la servitù e le giornate di Sîan e Babo trascorrono anche nei numerosi club della città, tra cui quello degli espatriati. Sîan infatti ha numerose amiche di origine inglese o americana che hanno sposato uomini indiani e generato figli “metà-e-metà”, come li chiama l’autrice usando la voce di Bean da bambina e facendo un po’ l’occhiolino perché pure lei è metà-e-metà. Quello di Tishani Doshi è un viaggio all’inverso, come ho ricordato ancora in questo blog. E’ interessante come gli stereotipi si ribaltino: è il luogo di provenienza di Sîan, il paesino gallese, ad essere povero e provinciale, a far venir voglia di scappare per altre destinazioni e non tornare mai più, e non l'India, che per la famiglia della nostra storia è il paese degli agi.
Il vero fulcro del libro è però il ritratto delle due sorelle, Bean e Mayuri. Bean è una bambina troppo credulona e con tanta fantasia, che ha paura dei fantasmi e ogni giorno sceglie un gusto di gelato diverso, mentre la sorella maggiore Mayuri è ormai affezionata unicamente alla vaniglia. Sapendo che il libro è in parte autobiografico, è chiarissimo con quale delle due sorelle si identifica l'autrice e se avessimo ancora qualche dubbio, questo viene comunque dissipato quando leggiamo che Bean decide di volare a Londra, dove vive con gli amici ed ex-colleghi del padre. Ed ecco il classico racconto dell'espatrio: la difficoltà di ambientarsi, il lavoro in ufficio e le storie d'amore interetniche. Ma c'è anche il ritorno al paese natale e un finale simbolico che non vi svelo.
C'è qualche dejà-vu, dovuto alla chiara influenza dei romanzi postcoloniali di autori come Zadie Smith (i deliziosi titoli dei capitoli, ad esempio, e un certo senso dell'humour) e Salman Rushdie (la coincidenza di avvenimenti salienti nella vita dei protagonisti con vicende storiche ben precise). Tuttavia le descrizioni di vita familiare sono vivide e la scrittura sensuale. La scintilla che ha fatto scattare la voglia di scrivere questo romanzo è stato il ritrovamento di un pacco di lettere d'amore scritte dai genitori dell'autrice. Tishani Doshi ha descritto questo romanzo come "una lettera d'amore ai suoi genitori" ed è forse per questo motivo che la storia d'amore tra Sian e Babo è così volutamente stereotipata. Anche Bean, infatti, è alla ricerca dell'amore ma ha come paragone la storia d'amore intensa e anomala dei suoi genitori, che ha attraversato gli oceani. Tra lei e i genitori, inoltre, c'è una differenza generazionale non indifferente e tutto un mondo di possibilità in più.
Un po' storia d'amore all'antica, un po' saga familiare "Il Piacere Non Può Aspettare" non delude ed è un buon romanzo di debutto per questa nuova scrittrice, di cui sentiremo sicuramente parlare ancora. La scelta del titolo non è casuale ed è legata alla sensualità e alla ricerca del piacere che si percepisce nelle vite della famiglia in questione. Tishani Doshi non è certo estranea a questo tema, avendo lavorato come ballerina per la famosa coreografa Chandralekha, che proprio sulla sensualità e sulla commistione tra tradizionale e moderno fonda la sua danza.

Tishani Doshi sarà al Festivaletteratura di Mantova, non perdetevela!


Sull'autrice: Tishani Doshi è nata nel 1975 a Madras, da padre indiano e madre gallese. E' poetessa (nel 2006 ha pubblicato una collezione di poesie in inglese intitolata "Countries of the Body"), giornalista (scrive tra l'altro una rubrica dedicata al cricket!) e ballerina (ha lavorato con la famosa coreografa indiana Chandralekha). "Il Piacere Non Può Aspettare" è il suo primo romanzo.

Monday, September 6, 2010

"Il Maestro e Margherita" di Michail Bulgakov




Anno di prima pubblicazione:
1966
Genere: romanzo, romanzo satirico, realismo magico
Paese: Russia

La mia recensione de "Il Maestro e Margherita" è uscita su Paper Street ed è disponibile a questo link. L'opera ha ispirato numerosi artisti, nonchè sceneggiatori teatrali, cinematografici e televisivi. Io scelgo quest'immagine un po' art nouveau.